Napoli, il sistema fragile dei trasporti

Napoli, il sistema fragile dei trasporti
La città addormentata vuole riempirsi di turisti, farne ricchezza ed economia, lasciandoli a piedi sotto il sole, storditi dal caos, alle porte di ingresso - Capodichino o...

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La città addormentata vuole riempirsi di turisti, farne ricchezza ed economia, lasciandoli a piedi sotto il sole, storditi dal caos, alle porte di ingresso - Capodichino o Napoli centrale-, con scene che non si vedono neppure nei luoghi più difficili delle parti più complesse dei continenti più poveri, dove almeno un torpedone carico di valigie o un furgone di fortuna che ti porti in hotel, alla fine, lo trovi. A Napoli, no. 

Incredibile ma vero: puoi restare fermo al gate di uscita dell’aeroporto senza avere, letteralmente, un modo per arrivare in centro. È successo, non è un racconto fantasy o un copione distopico. È un fatto. 

L’agitazione dei tassisti in queste lunghissime giornate di inizio estate, nata per protesta contro il dl Concorrenza del governo (che ovviamente vuole mettere ordine dove invece è più redditizio il disordine), ha scoperchiato il vaso di Pandora del conclamato immobilismo frenetico di Napoli: la città bloccata, la città paralizzata. Nelle grandi capitali culturali e turistiche europee, il taxi è un di più. Lo prende chi vuole arrivare in modo più agevole alla sua destinazione. Ma chi non vuole, o non può permetterselo, ha un ventaglio di alternative sicure, accessibili e popolari. In quelle più moderne esistono sistemi di collegamento su ferro, soprattutto negli snodi di interscambio con voli e treni. In quelle più piccole, esistono bus, con orari frequenti, certi, rigorosi. 

Nessuna città turistica europea – per non dire di quelle che ambiscono ad avere una economia -, grande o piccola che sia, immagina di poter lasciare un turista (o un residente o un uomo d’affari o un convegnista o un conferenziere) fermo in aeroporto o in stazione o per strada, senza una vera possibilità di muoversi. A Napoli, invece, sì. Ma nella vicenda dell’agitazione dei taxi riesplode con forza una situazione che, come quasi tutti i drammi di questa città, si finge ostinatamente di non vedere. I taxi sono o non sono un servizio pubblico? Lavorano su licenza pubblica (la tanto amata licenza), quindi, anche se privati, ne hanno le caratteristiche: allora, accanto ai diritti – rivendicati con azioni dure, improvvise, che hanno ricadute importanti sulla vita di tutti -, devono rispondere anche di precisi doveri, e qualcuno dovrebbe ricordarglieli. 

Perché è più facile trovare l’acqua nel deserto che un Pos su un taxi napoletano? Perché è più facile decifrare la Stele di Rosetta che un tassametro di un taxi napoletano? Perché c’è più ordine al mercato delle pulci che agli stalli dei tassisti di Napoli? Perché in alcuni taxi napoletani mancano quei basici elementi di pulizia, decoro, ordine che ci aspetterebbe anche da un’auto privata, figuriamoci da una a uso pubblico?

Perché, in sostanza, questa città non riesce ad avere un servizio taxi decente, presentabile, moderno, minimamente paragonabile a quello di altre città di pari rango (provare per credere)? Si possono, in definitiva, rivendicare – a torto o a ragione – solo diritti e tutele e non garantire, nel contempo, alcun dovere e misura di responsabilità collettiva? Sarebbe utile – e sarebbe il segnale di una maturità “politica” e civile che purtroppo manca – dedicarsi un po’ meno a Briatore, alla pizza, alle sceneggiate, ai panni stesi, al colore, alle disfide patriottiche, alle autocelebrazioni, all’orgoglio napulitano, e un po’ di più a quegli elementi minimi di civiltà che un luogo con ambizioni da capitale (non dico di un Paese, basterebbe di una cultura, di una storia, di una tradizione) deve avere. Ma nessuno ha pensato, in tutti questi anni di proclami, di fanfaronate, di mettere intorno a un tavolo tutti gli attori della grande questione della mobilità e costruire insieme un progetto collettivo, condiviso. Nessuno ha ritenuto, per tempo, e col tempo che ci vuole, che la cura di una città, l’idea stessa di una economia urbana e del turismo – su cui ormai, persa l’industria, sembriamo voler puntare -, ha bisogno di una precondizione che si declina lungo due parole che a Napoli, la città che dorme, mancano drammaticamente: responsabilità e organizzazione. Così, poi, quando i problemi esplodono, saltiamo con loro. O li risolviamo a modo nostro: sbuffando o sorridendo. Mangiamoci una pizza, “nun ce pensamme”.

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Il Mattino