Se Napoli è la scena ​di un paese spaccato

Se Napoli è la scena di un paese spaccato
Una settimana fa sembrava che in cima a tutto ci dovesse essere l’immagine della Campania e che nella fase succeduta alla fine del confinamento sociale, sindaco e presidente...

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Una settimana fa sembrava che in cima a tutto ci dovesse essere l’immagine della Campania e che nella fase succeduta alla fine del confinamento sociale, sindaco e presidente della Regione fossero chiamati all’esercizio di una nuova responsabilità. Sembrava, appunto; ma così non è stato e in poche ore la famosa tregua è andata in fumo. Oggetto del contendere, l’orario di apertura dei locali notturni, della vendita degli alcolici, della cosiddetta movida. 


La cronaca è nota. Dopo nemmeno due giorni dall’incontro con Vincenzo De Luca, Luigi de Magistris annunciava al mondo la sua idea di Napoli all’uscita dalla pandemia: una città che non dorme mai, aperta 24 ore su 24. Così il sindaco.

Il presidente della Regione doveva pensarla diversamente: orari limitati, locali chiusi all’una, il divieto di consumare alcolici dopo le dieci di sera. Non proprio quello che aveva in mente de Magistris, come si vede. Di qui il rilancio del Comune, con un’ordinanza che non solo smentiva la Regione, ma rendeva esplicito un conflitto tra due potestà concorrenti sul territorio nel nome di prerogative che il sindaco non vuole più vedere compresse e che la Regione, dal canto suo, si ritiene legittimata a rivendicare per sé nel nome della tutela della salute pubblica. Il risultato è che gli esercenti dei bar, e di tutti i locali che prosperano sul consumo di alcol di giovani e giovanissimi, non sanno più che pesci pigliare. Erano così contenti del liberi tutti intonato dal sindaco che fanno fatica a riprendersi dalla secchiata d’acqua gelata di De Luca. Di qui il moto di ribellione e le accuse di proibizionismo lanciate al presidente della Regione Campania. 

Sembrerebbe una questione locale, che nasce e muore nel perimetro asfittico di una Napoli da troppo tempo abituata a contemplare il proprio ombelico, legata al temperamento di due personaggi che vivono essenzialmente di comunicazione, ma basta alzare di poco lo sguardo per accorgersi che nel reticolo dei vicoli e vicoletti di Chiaia va in scena, in piccolo, un conflitto che ha dominato le settimane drammatiche dell’epidemia e accompagna ancora l’ingresso del Paese nella cosiddetta fase due. È lo spettacolo della grande frammentazione istituzionale del Paese. Nell’Italia del Coronavirus sono venuti al pettine molti nodi, come suol dirsi, ma di questi il principale è proprio il grande disordine nei poteri dello Stato. 

Vent’anni fa per contendere il terreno ad una Lega a quel tempo ancora rivolta verso le ubertose regioni padane, il centro sinistra varò una riforma del Titolo V della Costituzione che oggi si è rivelata il principale intralcio al dispiegamento di una coerente azione di governo dell’epidemia. Con il risultato che gran parte dell’attività normativa prodotta dalla presidenza del Consiglio e dal Governo centrale durante la fase più acuta del contagio ha dovuto essere indirizzata non tanto e non solo a contenere il virus ma, essenzialmente, a riaffermare i poteri del centro nei confronti di una periferia riottosa, confusa e facile preda di interessi particolaristici di fronte ai quali le élite locali hanno mostrato di essere fin troppo subalterne. L’esito paradossale di questa situazione è che un governo, come quello attuale, dove il Partito democratico tenta di esercitare una efficace azione di direzione politica dell’indirizzo di maggioranza, si trova a dover contrastare gli effetti deleteri di una riforma che lo stesso Partito democratico ha così incoscientemente voluto all’inizio del nuovo secolo. Si può certo obiettare che nel 2001 il virus era un’evenienza imprevedibile, ma la domanda a cui avrebbero dovuto rispondere quanti allora intervennero su un punto tanto delicato per la storia italiana come appunto i rapporti tra centro e periferia era non che cosa sarebbe successo dinanzi ad una epidemia, ma che cosa voleva dire moltiplicare, in un Paese di radicati particolarismi come il nostro, i centri direzionali e di spesa.

Questa domanda fu, allora, elusa nel nome di una politica politicante dalla vista cortissima. Gran parte dei fattori degenerativi della vita pubblica italiana di questi ultimi vent’anni vengono tutti da qui. Classi politiche locali inefficienti, fenomeni corruttivi, un appesantirsi della burocrazia pubblica, la proliferazione incontrollata di livelli decisionali e, di conseguenza, della conflittualità istituzionale all’interno dello Stato. La sanità è stata il grande terreno su cui questi fenomeni hanno prosperato. 

Il fatto più notevole è che il cosiddetto federalismo italiano è naufragato proprio sul terreno dal quale specialmente aveva preteso di ricavare le sue giustificazioni maggiori: il principio di sussidiarietà, lo stesso che de Magistris invoca in questi giorni contro il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. La pretesa cioè di un maggiore potere da conferirsi all’ente territoriale in nome della sua prossimità agli interessi dei cittadini. In una società compiutamente democratica, si dice, lo Stato si astiene dall’intervenire perché chi sta più vicino è meglio in grado di interpretare bisogni e interessi e dunque di impostare le azioni necessarie al loro soddisfacimento e al loro contemperamento. 


Abbiamo visto come è andata in Lombardia e abbiamo visto, di fatto, come è andata e come andrà a Napoli, seppur in forme meno drammatiche, con la città consegnata agli esercenti di bar e pizzerie che, lamentando gli effetti della crisi, daranno l’assalto all’ultimo residuo di spazio pubblico. Quali sono infatti gli interessi prevalenti in una società e che potere hanno quelli che non hanno potere di far prevalere il loro punto di vista? Che vuol dire la sussidiarietà in uno spazio conflittuale dove pochi sono in grado di mobilitare forze che i molti nemmeno si sognano? Questo è da sempre il particolarismo e a maggior ragione il particolarismo italiano. In un Paese frammentato come il nostro e consegnato nelle mani di interessi proprietari tradizionalmente esclusivisti, il potere centrale dello Stato ha sempre offerto maggiori garanzie di quanto non abbiano mai fatto le camarille locali.
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Il Mattino