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Se ne pensi quel che si vuole, ma a Luigi de Magistris va riconosciuto un indiscusso merito: aver fatto sognare una città che non sognava più da troppo tempo. Buon oratore, abile retore, disciplinato utilizzatore degli strumenti della narratologia, il sindaco ha costruito la sua carriera politica a Napoli lasciando che le sue proposte elettorali, all’altezza di quella fatale primavera del 2011, si riversassero dai media e dalle piazze direttamente dentro i cuori di cittadine e cittadini e ottenendo da questi un coinvolgimento di sentimento – prima ancora che di ragione – di rara efficacia. In una parola, l’ex magistrato ha saputo creare un meccanismo che, partendo dall’azione virtuale e formale delle parole, lo ha fin da subito nutrito di forza e consenso in quantità tali come non se ne vedevano da molti anni in città. Chapeau.
Peccato, però, che questa forza iniziale si sia trasformata, pressoché immediatamente, nella sua dannazione decennale. Perché un sindaco non è un romanziere. I romanzieri organizzano una realtà fantastica e creano un mondo attraverso le parole. Gli danno non solo tono e colore, ma lo plasmano a propria immagine e somiglianza. Un sindaco amministra la realtà di una città, si misura con quella. Dopo che una campagna elettorale finisce, un sindaco mette da parte sé stesso e il suo ego e comincia a fare ciò per cui è stato eletto: fare e non più solo dire, agire e non più solo promettere, concretizzare e non più solo annunciare. A questa fase, de Magistris non è mai giunto. Della partita in corso, qualsiasi essa sia, lui vuole essere giocatore e arbitro, guardalinee e pubblico. Come nelle partitelle di calcio dei bambini, fornisce il pallone e decide in perfetta autonomia quando portarselo via dal campo.
Ecco un altro dei meccanismi di funzionamento del sindaco: vuole fare tutto lui.
Le mosse d’azzardo, a cui fanno seguito impietose retromarce, sono veleno. Soprattutto in tempi di crisi, com’è senz’altro questo che Napoli sta vivendo. E non è difficile intuire quale pegno paghi questa città ogni volta che il suo primo cittadino compare seduto sulla poltroncina di uno studio televisivo, o fa capolino dai microfoni di una radio e dagli schermi di un telegiornale annunciando, promettendo, illustrando, dando parola. Delle recentissime “iniziative clamorose” a contrasto dell’epidemia, che con gran orgoglio era stata avvertita l’intera cittadinanza, non si sa bene nemmeno che pensare. Fumo negli occhi per prendere tempo in attesa delle imminenti decisioni governative, “palleggiate per tre giorni, annunciate in maniera furbesca per il venerdì che il governo si era dato come scadenza per la classificazione in Campania e poi ritirate”, come scriveva ieri su questo giornale Gigi Di Fiore? Un pasticcio d’ordinanza che, a quanto pare, conteneva una lista nera di addirittura 150 strade urbane da chiudere, vai a capire bene come, o quali, o con quali mezzi e con quali finalità? A un certo punto sembrava quasi di tornare a sentire Trump che tuonava contro la Corea del Nord al suono di “invincibile Armada” pronta a scatenare la sua potenza di fuoco contro il dittatorello da barzelletta Kim Jong-un, salvo poi scoprire qualche giorno dopo che era tutto un grande bluff, dato che la portaerei Carl Vinson era a circa 5mila chilometri dall’obiettivo, impegnata in una placida esercitazione di guerra con la Marina australiana.
Come che sia, la Napoli schiacciata dalla pandemia non si merita questo marketing temerario, perché – in politica ancora più che in altri luoghi – la forma è sostanza. Un quadro emergenziale di tale portata richiede scelte e decisioni amministrative chiare, esatte e veloci. Se la comunicazione prende il sopravvento sull’azione, quello che resta nella cittadinanza è solo la sensazione di essere stati beffati, trattati anche in questo caso come ragazzini per i quali basta un banale gioco di prestigio per creare in loro stupore e ammirazione.
Ma non è di conigli che escono dal cilindro che Napoli ha bisogno in questo momento.
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