Premio Serao, quel filo da Matilde a Jhumpa

Premio Serao, quel filo da Matilde a Jhumpa
Si è innamorata prima della nostra lingua – un rapporto passionale, un’infatuazione, una devozione, un’ossessione non necessariamente ricambiata –,...

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Si è innamorata prima della nostra lingua – un rapporto passionale, un’infatuazione, una devozione, un’ossessione non necessariamente ricambiata –, poi dei luoghi del quotidiano – marciapiedi, giardini, ponti, piazze, strade, bar e negozi –, infine della città: Roma. Ma questi amori, messi qui in ordine cronologico in base alle pubblicazioni, devono aver raggiunto insieme Jhumpa Lahiri che la si immagina quasi: nata a Londra da genitori bengalesi, cresciuta negli Stati Uniti, Premio Pulitzer nel 2000, Medaglia Nazionale per l’Arte dalle mani di Barack Obama (insieme a Stephen King), la scrittrice molla se non tutto, di sicuro molto, per raccontare noi qui: l’Italia. Scrivere è sempre un esercizio di traduzione, ci si sforza di interpretare e riportare sul foglio sé stessi e gli altri, la vita e la memoria, l’immaginazione e la realtà. 

 

In Lahiri, che ha raccontato d’esser arrivata nel nostro Paese per la prima volta a vent’anni, tra le mani non una guida turistica ma un dizionarietto di 40mila parole, si potrebbe pensare che l’impegno nel tradurre e tradursi sia stato anche maggiore. Non è così. La sua è soprattutto una pratica di postura non semplicemente linguistica, ma dello sguardo volto a cogliere e fermare la vita frammezzata dell’occidente, sospendendone per un momento il flusso. Un’impressione, un’ombra, un passaggio: il non detto, catturato nella forma del racconto più o meno breve. 

Oggi che a lei va il Premio letterario Serao, fortemente voluto e promosso da questo quotidiano, viene da cercare similitudini e delineare sovrapposizioni: le radici, il linguaggio, i temi, l’osservazione, l’emancipazione, la commistione di generi fino a crearne uno a sé, il meticciato di culture, la ricerca di senso e di una stabilità che non è fissità, ma costanza e punto di resistenza. Ci sono tutti, come per le altre scrittrici insignite del riconoscimento a partire dal 2017.

Antonia Arslan, Azar Nafisi, Dacia Maraini, Igiaba Scego e ora Jhumpa Lahiri, hanno storie diverse e tratti in comune, punteggiano il mondo con le loro origini, storie familiari e personali, partenze e ritorni. Nel nome di Matilde Serao, potremmo seguire le loro parole e tracciare una via unica di libertà, diritti e conquiste e ogni storia, sia essa reale o inventata, avrebbe dalla sua un concetto di verità assimilabile con l’integrità. Le si potrebbe far dialogare tra loro, queste donne, e cogliendo pezzi di voce da questa e dall’altra opera, comporre un manifesto: “Che Dio v’aiuti, se ci ingannate”, comincerebbe Arslan. “Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati”, seguirebbe Nafisi. “A volte ci si sfama anche con gli occhi”, direbbe Maraini. “Credo di essere una donna senza identità. O meglio con più identità”, aggiungerebbe Scego. A conclusione, Lahiri: “Ho solo il desiderio. Ma alla fine un desiderio non è altro che un bisogno folle”.

Quale? La vera sfida è non dare un nome a quest’aspirazione tanto necessaria per non ingabbiarla di etichette. 


Intanto, a Lahiri, che ama molto l’opera di Elena Ferrante, bisognerà regalare – se non fa già parte della sua libreria – il volumetto “L’amante sciocca”, scritto da donna Matilde sul finire dell’Ottocento: vi ritroverebbe il racconto d’un amore sbilanciato, di un desiderio davanti cui sentirsi imperfetti e, forse, un Nino Sarratore ante litteram. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino