Pepe Reina è l’ammuina nel feudo di precisione dell’area di rigore. In un territorio di geometria delimitata. Pepe porta la passione, si fa conduttore dell’energia che...
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È un veterano che ha attraversato l’Europa per scegliere Napoli, con una tale determinazione da apparire calcolata e che, invece, ogni giorno si scioglie per le strade e con la gente in una ricerca identificativa, quasi avesse antenati napoletani; quando è tornato in maglia azzurra, lo ha fatto – come Norman Douglas con Capri – per piantarsi, mettere radici, restare a lungo.
José Manuel Reina è un portiere col cuore, un calciatore che ama e che ha bisogno di essere amato, e pur giocando continuamente – su twitter scrive in napoletano – in campo è il leader, tanto che dopo Sarri è quello che ha fatto di più per la difesa; che sente i suoi occhi e prima le sue urla, gioca a scacchi dalla porta, una porta che non è un banale confine ma una soglia di apertura alla città, una frontiera, è come se parasse a piazza Plebiscito, davanti Palazzo Reale.
Ha capito che Napoli si sente sempre sotto assedio, ed è diventato il soldato di guardia, con molta ironia. Mangia pizza e pasta e patate – dice di non aver mai messo i piedi su una bilancia – ma poi in campo fatica e si distingue.
Con la Fiorentina ha fatto due parate decisive, una per tempo, la prima su Jakub Blaszczykowski: allungandosi con una mano sola su una fucilata; e poi uscendo a temporale su Nikola Kalinic facendogli perdere lucidità e gol, un agguato di cui l’attaccante croato si è ricordato venti minuti dopo: infilando il pallone d’esterno alle spalle del portiere spagnolo.
Ma Reina non demorde, allucca, si sbatte, sa soffrire, e in molti momenti sembra davvero cacciare «‘a currea» pinodanielesca, per poi sciogliersi come un ragazzino dei quartieri spagnoli sui gol di Insigne ed Higuain, e disperarsi da vero tifoso, con la platealità e la confidenza che Napoli dà a se stessa fuori ai balconi e alle finestre, quando Callejon manca il colpo decisivo.
Tanto che sarebbe bello ripetere con lui quello che Douglas Gordon e Philippe Parreno, fecero a Madrid con Zinedine Zidane: diciassette telecamere, da altrettanti punti di vista, filmando la partita solo del campione franco-algerino, facendone un quadro liquido.
Un’opera d’arte che Reina meriterebbe, quasi tutte le domeniche, per la sua capacità di entrare nelle partite persino quando non è chiamato in causa, quando ne esce pulito, perché è l’accento sulle mani e mai l’accenno delle mani, non conosce mediazioni.
La sua prima stagione non era come questa, si era mantenuto in equilibro – come un buon portiere sa –, non aveva ancora preso confidenza, ora, invece, Napoli è diventata la sua biografia, che viene scritta ogni domenica in campo. Il rapporto è reciproco, è un continuo ri-conoscersi per ogni tuffo, parata, uscita, lancio. Guascone, attira su di sé un numero crescente di ammiratori, come anche le mire degli attaccanti che vogliono ricondurlo alla normalità ma niente a che vedere con Grobbelaar e le sue moine.
È il rischio di chi esce dalla sua area, di chi non resta in attesa, di chi non si fa i fatti suoi, è il rischio di chi sa che il calcio è anche mischia e uscita da questa, possibilità di caduta e dubbi da cancellare in pochi secondi. Il portiere è istinto, prima ancora che tecnica e vocazione, deve annusare il vento e percepire le traiettorie, è un Cristoforo Colombo – si sta in porta come in mare – e Reina è un uomo coraggioso, per questo gioca in quel modo, vivace e con una aggressività spropositata, anche nelle partitelle d’allenamento.
Non si distrae mai ma ride e appena serve si mobilita, tornando in area, è come se anche i suoi difensori sapessero che lui si difende da solo, condizione che li libera e assolve. È il portiere spontaneo: nelle parole e nella azioni, che, quando si allunga, lascia l’esuberanza sulla linea.
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Il Mattino