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L’immensa fortuna che abbiamo davanti ci trova ciechi, non la scorgiamo. Nasce dal privilegio di alzarci ogni mattina. E entrare in giornate in cui possiamo vedere i nostri bambini crescere sani, girare per casa, giocare, studiare. Poi succede una cosa tremenda come quella avvenuta in via Foria al bambino Samuele. Volare giù dal balcone a quattro anni, chissà come, chissà a causa di chi o di che cosa.
Nel lessico sbrigativo della quotidianità, e anche in quello della cronaca, quest’evento si classifica come tragedia, ma non basta a racchiudere il dolore lancinante, l’assurdità dell’avvenimento. Forse bisognerebbe trovare un’espressione nuova. Perché la parola tragedia evoca il teatro, i suoi archetipi, le immagini dei miti, le figure dell’inconscio.
C’è un uomo, il loro domestico, dalla salute mentale forse precaria, che lo aveva in braccio chissà perché, ma si difende e nega di averlo scaraventato giù. Solo se ci sovrastasse una sorta di telecamera gigantesca in grado di fissare anche immagini e momenti privati, solo se così si riuscisse a far retrocedere i fotogrammi della realtà, si potrebbe forse appurare con certezza che cosa è veramente accaduto su quel dannato balcone. Se per caso il video acquisito agli atti dagli inquirenti per le indagini, quello in cui il bambino dice “te jetto abbascio”, ti butto giù, contenga un indizio rivelatore o solo una specie di sinistro presagio.
Può anche darsi che non sapremo mai com’è andata veramente, cioè che la caduta dal balcone non sia ricondotta al disagio mentale e quindi alla responsabilità del domestico, ma venga rubricata come incidente. In ogni caso è e resterà un evento gratuito, insensato. È ciò che non doveva accadere, lasciando dietro di sé un inutile dolore, rovesciando su quella povera famiglia l’immensa sfortuna del volo di Samuele.
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