Due anni per chiudere le indagini, quattro per arrivare al processo, altri due per la sentenza di primo grado, undici mesi per il deposito delle motivazioni. Poi - dal 2012 ad...
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Ci si aspettava che un simile procedimento avesse ritmi serrati, tali da garantire una sentenza in tempi congrui, e con essa una verità giudiziaria che accertasse la pericolosità degli imputati o sgomberasse il campo da dubbi e sospetti. E invece da quattro anni si attende anche solo di conoscere la data dell’udienza del processo in appello. Rischia così di diventare un nuovo caso giudiziario quello del processo per terrorismo internazionale che nel 2009 fece finire nel registro degli indagati della Procura di Napoli l’ex vice imam della moschea di Corso Arnaldo Lucci Ahmed Nacer Yacine e altri diciotto maghrebini con il grave sospetto di finanziare e sostenere l’ala armata algerina in contatto con il gruppo salafita «Hijra w’al Takfir» («Esilio e anatema») per la predicazione e il combattimento.
Sono ormai trascorsi cinque anni dalla sentenza di primo grado: era l’8 luglio 2011 quando la quinta sezione della Corte d’Assise condannò alcuni imputati e ne assolse altri. Il 25 giugno 2012 furono depositate le motivazioni e il 31 luglio 2012 partì il ricorso con cui si impugnava il verdetto. Da allora nessuna udienza è mai stata fissata.
È come se il processo si fosse perso nei meandri di una giustizia che fatica a correre dietro a una mole di procedimenti che cresce smisuratamente e ad onta di un numero di personale soprattutto amministrativo che si riduce a vista d’occhio; e mentre gli anni passano cresce il timore dei termini di prescrizione che incombono, mentre i timori legati all’emergenza di un terrorismo jihadista globale aumentano.
Dov’è finito quel processo? In quel grande buco nero che spesso inghiotte tutte le risposte che la giustizia non riesce a dare se non con ritardi che rischiano di far franare il terreno delle indagini arato non senza fatica da investigatori e magistrati inquirenti? Le contingenze del momento storico non consentono di aspettare. La lotta al terrorismo internazionale non può prevedere tempi lenti.
Il caso del processo «dimenticato» a carico dei presunti terroristi algerini che avevano scelto Napoli come base logistica per l’azione di fiancheggiamento a cellule radicali islamiche è di quelli sui quali non è possibile abbassare la guardia. Anche per questo la Procura della Repubblica di Napoli ha posto il caso all’attenzione della Procura Generale: recuperare le sorti di procedimenti delicati come questo sul terrorismo internazionale diventa una indifferibile priorità.
Non si può attendere quattro anni per conoscere la data in cui dovrebbe cominciare il processo in secondo grado: questa è la sintesi del ragionamento dei pubblici ministeri. L’ufficio inquirente diretto da Giovanni Colangelo ha dunque informato la Procura Generale: da qui è iniziato un lavoro di monitoraggio, uno screening per individuare tutti quei procedimenti che per tipologia di reati contestati o rischio prescrizione non possono essere trascurati, nonostante le emergenze e le inefficienze con cui ogni giorno gli uffici giudiziari devono confrontarsi. «Il vero nodo del processo è quello in Appello - ammette il procuratore generale Luigi Riello - La Corte di Appello oggi è soffocata dai processi. È lì che registriamo la maggiore sofferenza dei carichi di lavoro. E per questo abbiamo avviato con tutte le Procure del distretto un rapporto di collaborazione per avere un quadro preciso dei procedimenti che per gravità dei reati, termini di prescrizioni o altre particolari ragioni meritano una trattazione prioritaria.
Questi elenchi li indicheremo alla Corte di Appello di Napoli». Sinergia tra gli uffici: sembra essere questa la soluzione. Intanto, anche se il processo ai presunti terroristi che avevano scelto il capoluogo campano come crocevia per creare nuove identità a pericolosi «combattenti» islamici (molti sono transitati in città sotto falso nome anche dopo avere combattuto nel Kosovo, in Afhanistan, Algeria e Cecenia) dovesse essere fissato in appello in tempi strettissimi, c’è chi teme che resti il rischio della prescrizione. Tutti i «reati fine» contestati ai presunti appartenenti alla cellula salafita, come il procacciamento di documenti falsi, la raccolta di finanziamenti o il reclutamento di persone da inserire nell’organizzazione, sono già prescritti. Resisterebbe il solo reato di terrorismo internazionale, ma ancora per poco. Forse un paio d’anni, azzarda chi conosce bene gli atti d’indagine. Ci sarà una sentenza definitiva prima di questo termine?
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Il Mattino