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Il New National Stadium sembrava un teatro di posa e la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo è apparsa come una registrazione delle prove di una inaugurazione futura, quando il mondo sarà veramente libero e ci sarà la gente intorno. Dal seme alla fiaccola olimpica tutti gli sforzi del Giappone – meravigliosi – sono apparsi effimeri rispetto alla realtà di un paese che li vivrà con diffidenza, problematicità ulteriore e distanza.
Questa volta la rappresentazione del mondo è debole rispetto alla cronaca, la sua immaginazione paga pegno alla stanchezza e al dolore, e per quanti generici si possano piazzare a salutare e ballerini a muoversi in perfetta armonia: rimane il quotidiano che schiaccia, vince e lascia quella malinconia che avevano tutti gli atleti – sulle facce e negli occhi – con i loro video in diretta a giustificazione dell’euforia indotta. Tanto da far apparire la preparazione atletica di queste olimpiadi come laboratorio di recitazione per simulare lo stupore durante la cerimonia. Gli atleti che si allenavano da casa, erano gli stessi che ora pur stando a Tokyo si continuavano a comportare come se fossero nelle loro stanze, in un surrealismo sociologico che va oltre J. G. Ballard.
Senza pubblico non c’è evento, e questo mondo-presente ancora non si è abituato al fatto di vivere a distanza, seppure una distanza sincronica con un perfetto allineamento sentimentale. C’è lo svolgimento delle Olimpiadi, ma non c’è il contesto olimpionico, manca il nodo che si crea tra mondo e paese ospitante.
Le Olimpiadi interrompevano le guerre ma non possono nulla contro le pandemie. Anzi, ora, sanciscono lo smarrimento, sottolineandolo in una cerimonia collettiva. Ogni esperimento culturale, ogni evocazione – dal teatro giapponese al Monte Fuji – appare una ulteriore gabbia immaginativa che contiene il rimpianto per un mondo perduto, che era libero e non visto, eccezionale nella sua normalità. Adesso, misurando il vuoto che dal New National Stadium attraverso le telecamere arriva a tutti, si scopre l’intima e perdurante solitudine che siamo costretti a vivere. Il virus ci mostra un progetto totalitario d’isolamento che è il contrario delle Olimpiadi che sono un progetto democratico d’unione: dove il canoista di Tonga ha lo stesso spazio di un cestista americano o della nuotatrice più veloce di tutti. Dopo la parentesi dei campionati europei di calcio con gli stadi quasi pieni: ci eravamo illusi, ora la cerimonia d’inaugurazione delle Olimpiadi – già rinviate di un anno – ci maltratta, riportandoci nella paura, tornando a farci perdere la naturalezza dello stare insieme. Mostrando gli stadi europei di giugno come una distrazione dal male, una vacanza – troppo breve – dall’allerta.
Il New National Stadium vuoto era anche tetro, per quanti sforzi d’allegria irreale si provassero a fare, la distrazione non vinceva, la felicità non si liberava. Il Giappone, terra della tecnologia, sempre a suo agio col futuro, dove ogni ostacolo del presente – proprio come le disgrazie del passato dall’atomica ai disastri nucleari passando per i terremoti – sembra superabile con una soluzione digitale e un grande sforzo collettivo, questa volta è apparso impacciato e triste.
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