Valentino Rossi, come Jordan è oltre lo sport

Valentino Rossi, come Jordan è oltre lo sport
Smette di stregare i circuiti, di trascinare le masse, di piegare staccando sempre più tardi di tutti. Scende dalle moto per salire sulle auto. È un salto, di...

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Smette di stregare i circuiti, di trascinare le masse, di piegare staccando sempre più tardi di tutti. Scende dalle moto per salire sulle auto. È un salto, di specie, da due a quattro ruote. Non lascia le curve cambia la modalità di affronto. Alla fine ha vinto l'uomo sul ragazzo, il signor Rossi su Valentino. Gli anni sulla passione, la realtà sul sogno, la stanchezza sulla volontà. Quello che fa più impressione del suo annuncio è il declinarsi al passato, il mettere in fila gli anni migliori (2001, 2004, 2005), le moto, le vittorie, il passare in rassegna la sua gloria. 

Ma è una resa allegra, non piange, non si commuove, arriva e si lamenta perché ci vorrebbe un tavolo per appoggiare la sua storia, invece ha uno sgabello e i microfoni e le telecamere del mondo, tanto che l'annuncio che smette lo fa in inglese, quasi ad allontanarsi da Tavullia, dalla sua lingua, dall'Italia, dalla verità, dal contesto che l'ha generato, dal principio e dalla spinta. Poi, quando lo dice anche in italiano, appare chiaro a tutti che è finita davvero: come Pavarotti che canta per l'ultima volta a New York, 

Valentino se ne va, non il demone della sua velocità, il fuoco delle sue corse. In questi lunghissimi venticinque anni vissuti in larghezza e azzardo, non è mai stato solo un pilota, ma tantissime altre cose, rivoluzionando il mondo delle corse, portandole nelle cucine italiane prima e del mondo dopo, allargandone il pubblico tanto che gli citano Alberto Tomba e Michael Jordan , saltando da una categoria all'altra senza lasciarle prima di aver vinto un mondiale dalla 125 alla 250 alla 500 e poi alla MotoGP. È l'uomo dei due mondi (di moto), l'ultimo a vincere nel 2001 e il primo a rivincere quando tutto cambia nel 2002 con il passaggio ai motori a quattro tempi. 

È il ragazzo che piace alle nonne, alle mamme e alle coetanee, quello che sa stare in equilibro sopra la follia dei desideri e delle corse, dello spettacolo e della velocità, un nuovo tipo di italiano, figlio del litorale Adriatico, delle mattane di Andrea Pazienza, delle accelerazioni di Pier Vittorio Tondelli, senza perdere le radici di Giovannino Guareschi e dei suoi meccanici silenziosi, un figlio punk dell'Appennino che sta tra Leopardi, Kevin Schwantz e Mike Hailwood. Uno che si porta dentro la scintilla del motore e la luce della sfrontatezza, l'italiano più famoso al mondo, che tutto il resto del mondo a cominciare dai giapponesi vorrebbe fosse loro. Uno capace di rimanere un provinciale come solo Federico Fellini facendo apparire gli altri piloti dei cartoni animati. Di scalare il tempo senza perdere smalto, facendo ombra ai nuovi piloti che arrivavano, come solo Mick Jagger. 

Tanti pilotini al cospetto del Pilota. Perché Valentino è stato un performer, uno che non si è accontentato delle piste e dello spettacolo dei sorpassi, delle staccate, delle infilate, delle cadute e dei tempi consumati, no, ha voluto metterci anche quello del dopo gara inventando gag e scenette, coniugando avanspettacolo, bar e una natura tognazziana della vittoria. Uno che è stato capace di lasciare la Honda quando l'imperativo in MotoGp era: senza Honda non si vince per l'allora scalcagnata Yamaha andando alla ricerca della supremazia del «manico» sul motore, del pilota sulla macchina, frapponendosi allo strapotere della tecnologia con quello della sua fantasia, complicandosi orribilmente la vita tranquilla del campione per darsene un'altra da oltre campione con allegria. Il suo stare in pista, il suo girare da «vecchietto» in questi ultimi anni e il suo correre da tiranno» in quelli prima, conquistando tutto, ha avuto un solo principio: lo scardinamento delle regole. 

E soprattutto: il divertimento. Valentino è stato estraneo, alieno, distante da tutti i suoi avversari, sempre. Ne ha bruciati tantissimi da Max Biaggi quello che l'ha presa peggio a Capirossi, Harada, Gibernau, Stoner, Lorenzo, Márquez. E ne ha visti cadere alcuni che erano pezzi di sé come Norifumi Abe, Daijiro Kato e Marco Simoncelli. Gioie e dolori, felicità e ferite, senza mai piangere né pregare. Perché Valentino è un post-italiano, che è andato oltre la religione non coinvolge Dio in pista cattolico ma non apostolico, per nulla romano, ed è simpatico; è andato oltre il lamento italiano assumendosi sempre le colpe; è andato oltre le ideologie, ne ha una sola fuori dal motociclismo che porta appesa al collo con la scritta «VLF» e farebbe impallidire Michela Murgia e il suo esercito del controllo dei desideri. 

Perché Valentino è esagerato e anche saggio, ma non bacchettone; attento a tutto: dallo stare davanti alla narrazione al look, ma poi gli scappa d'essere spontaneo. Lavoro, dedizione, mente aperta, passione, e non basta, orecchio e occhio, forza e ossessione per la serialità della vittoria, insieme alla determinazione di rialzarsi, è una fede che si conserva e rigenera, divertendosi, quella nella velocità, nel movimento. Ha il gusto di guidare, che chiama libidine, annodandolo alla sessualità, e alla naturalezza come faceva Jerry Calà qualche anno fa per tutto quello che era gioia di vivere , perché è un gioco, un gioco serissimo, che pratica da quando era piccolo, che l'aiuta a distaccarsi dalla realtà. Sfida la morte, annullando i tempi morti. Stacca gli altri, ma non perde di vista né gli amici né la famiglia, controllando ogni cosa. 

È riuscito mentre correva a creare una Academy e una sua squadra-scuderia finendo per occupare le corse con i suoi piloti e la sua idea di motociclismo, ha messo su il ranch che sognava da ragazzo e ci corre quasi tutti i fine settimana in motocross come se non ci fosse un domani, gareggiando con i nuovi custodi della velocità italiana. S'è fatto patriarca, e quindi doveva lasciar andare qualcosa. Ha scelto di lasciare il suo regno, di cambiare modalità, ha stancato la ferita di aver visto cadere Simoncelli passando il suo metodo e, saturato il dolore, ha deciso di scendere dalla moto. Girerà fino all'autunno, poi dopo l'ammicco, porterà il suo desiderio di stupire nelle auto, e la corsa continuerà. Sarà diversa, senza il fardello del passato, meno rampante, ma sempre alla ricerca dell'oltre. Un'altra vita, non lontana da quella vissuta negli ultimi 42 anni, soltanto un po' più in là, con più calma e meno ossessioni, dove gli eccessi, i travestimenti e i divertimenti sono l'evoluzione della gioventù al ritmo di Gianni Morandi.

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Il Mattino