Piccole bande, ospedali infedeli, sindacati compiacenti ed imprenditori senza scrupoli. In Bangladesh, dietro al giro di falsi certificati di negatività al Covid 19 che ora...
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Qualche giorno fa ad esempio, all’esterno del General Hospital di Mugda, una delle strutture più all’avanguardia di Dacca, come al solito c’era una lunghissima coda di cittadini pronti a sottoporsi al tampone. Attorno a loro però ronzavano un paio di persone che, come scoperto in seguito dalla polizia, da giorni avvicinavano chi era in fila per proporgli un certificato falso al posto del test ufficiale. Quasi dei bagarini che, agganciato qualcuno, lo portavano in una copisteria a pochi passi dall’ingresso dell’ospedale. Lì, grazie a degli accordi con dei dipendenti della struttura sanitaria compiacenti, avevano a disposizione tutte le matrici originali dei documenti. Altre volte però, erano gli impiegati di uffici vicini all’attività a recarsi nella copisteria per richiedere il certificato fasullo. Ottenerlo infatti non permette solo a chi è residente in un altro Paese o possiede un permesso di soggiorno lavorativo di partire in aereo ma anche, a chi vive in Bangladesh, di avere delle ferie retribuite e un’indennità versata dallo Stato.
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È impossibile stabilire quante copisterie offrano questo genere di servizio o peggio quanti certificati siano stati stampati nelle scorse settimane. Come ammesso dalle autorità locali questi attestati - comprese le versioni originali - non hanno numeri di identificazione nazionale né richiedono che vengano riportati i contatti telefonici di chi li ha prodotti. Tuttavia non si tratta solo di cittadini disposti a tutto. A volte, dietro a queste false certificazioni, la polizia ha stabilito che ci sono delle vere e proprie truffe. I bengalesi purtroppo spesso sono poco istruiti, vivono in condizioni economiche decisamente precarie e mal tollerano la burocrazia che da sempre li schiaccia. Si fidano delle persone più che delle indicazioni ufficiali. Una pratica che in questo caso potrebbe avere risultati tragici. Alcune organizzazioni sindacali infatti, tradizionalmente molto rispettate nel Paese, hanno fatto della produzione di falsi certificati una fonte di guadagno consistente. Rappresentanti raggiungono sobborghi e paesini immediatamente vicini alla Capitale e spingono i cittadini a fare il test a domicilio facendosi pagare anche se il governo bengalese prevede che il tampone sia gratuito per chi non può permetterselo. A queste persone poi, ingannandole, consegnano una certificazione senza valore che per chi paga ha come obiettivo, oltre alla possibilità di tentare di uscire dal Paese, quello di evitare lo stigma sociale di essere additato come un contagiato. Non solo, come scoperto dalla polizia che ha colto in flagrante una dozzina di questi sindacalisti, c’erano diversi tipi di organizzazioni. Alcune anche con strutture più consistenti specializzate nel fornire certificati in pochissimo tempo, anche per email, a chi ne aveva bisogno per partire.
Uno dei sindacati aveva a disposizione non solo alcuni membri del personale ospedaliero del Jkg Medical Limited - struttura situata nella zona più ricca della città di Dacca - ma anche grafici ed esperti IT. In pratica la situazione sembra essere fuori controllo nonostante il governo bengalese abbia portato la vicenda in Parlamento e schierato la sua unità anticrimine d’élite. Il Rapid Action Battalion ha già effettuato decine di arresti e sequestrato pc, stampanti e documenti contraffatti. L’ultima operazione risale a lunedì quando hanno fatto irruzione nell’istituto sanitario Regent, con filiali nei sobborghi di Uttara e Mirpur a Dacca, scoprendo che aveva raccolto oltre 10.000 campioni ma ne ha analizzati solo 4.200 pur consegnando a tutti un certificato di negatività al Covid 19. Persone di cui ora è impossibile seguire le tracce. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino