Coronavirus Italia, l'accusa della statistica: «Dati diffusi senza metodo, così non capiamo il virus»

Coronavirus Italia, l'accusa della statistica: «Dati diffusi senza metodo, così non capiamo il virus»
Professoressa Pratesi, lei in qualità di presidente della Società italiana di Statistica (Sis) a metà marzo ha scritto all'Istituto superiore di...

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Professoressa Pratesi, lei in qualità di presidente della Società italiana di Statistica (Sis) a metà marzo ha scritto all'Istituto superiore di sanità per avvertire che «la lettura dei molti dati a disposizione è spesso confusa, contraddittoria e disorientante». Che risposta ha avuto?

«Nessuna», dice Monica Pratesi.

E ora che iniziative prenderà?
«Non mi sono fermata. Ho sentito i colleghi statistici e ho chiamato il presidente dell'Istat Gian Carlo Blangiardo. Ho sollecitato una presa di posizione istituzionale perché ci sia una regìa. Si devono produrre dati chiari sull'epidemia, per consentire a chi governa il Paese di fare delle scelte. Non si può proseguire così, senza un metodo. Sia chiaro che noi statistici non ci arrendiamo e anzi sono certa che l'Istat già si è attivata con doversi progetti anche in collaborazione con la Sis».

Cos'è che la convince meno nella diffusione dei dati?
«Capisco l'emergenza, tutti stanno cercando di dare il meglio in una situazione difficile e però i dati non possono essere comunicati senza una progettazione concettuale».

Facciamo un esempio.
«Alcune cose le avete evidenziate sul Mattino. Ogni giorno la Protezione civile dice di quanto sono aumentati gli attuali positivi e lascia intendere che quello è il numero dei nuovi contagiati. Ma non è così. Per trovarlo devi sommare morti, guariti e variazione degli attualmente positivi. È necessario essere ambigui su un punto così delicato? Addirittura sulla base dei numeri parziali sono state fatte analisi volenterose, magari anche da persone di qualità, ma con esiti modesti. Analisi che però influenzano il dibattito. Ecco: è la prova che l'assenza di una progettazione ha delle conseguenze. Un fenomeno nuovo e drammatico come la pandemia del Covid 19 per essere contrastato va intanto capito».

In Italia abbiamo discusso a lungo se si muore di coronavirus o con il coronavirus. Lei che idea si è fatta?
«Il mio medico dice che si muore sempre per arresto cardiaco. In realtà l'Istat proprio oggi ha fornito i valori certi delle anagrafi sulle morti, per qualsiasi causa, in oltre mille Comuni campione e ci sono aree come la provincia di Bergamo dove i decessi dal primo al 21 marzo 2020 sono aumentati di quattro volte rispetto all'anno precedente. Se questi sono i numeri la risposta è che non soltanto si muore di coronavirus ma che forse i decessi sono più di quelli ufficialmente registrati. E però questa risposta non può bastarci, dobbiamo capire di più».

Come?
«Nella lettera al presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro ho chiesto di rendere disponibili ai ricercatori almeno parte dei dati che raccolgono. Infatti solo ai fini di ricerca potrebbero essere forniti dati individuali ma resi anonimi insieme ad altre informazioni su alcune variabili quali età, data dei sintomi, data del tampone, data del ricovero, tipo di ricovero, presidio ospedaliero, sintomi osservati, patologie preesistenti, professione, comune di residenza e di lavoro, numeri di componenti della famiglia di appartenenza. L'Iss fa delle analisi accurate sui decessi ma accorpando i dati di base. Capisco le esigenze di privacy che vanno tutelata e tuttavia bisogna vedere come arriva l'arresto cardiaco».

Anche sui tamponi il quadro è poco chiaro?
«Assolutamente. Non si spiega se i tamponi che indicano la guarigione siano o meno inseriti nel conto, perché è chiaro che se per ogni malato faccio tre tamponi, uno quando verifico che è positivo e due per assicurarmi che sia guarito il numero di persone sottoposte a controllo diventa molto inferiore. Eppure proprio il tamponamento, se posso usare il termine così, è la soluzione».

Tamponi per tutti, quindi?
«Niente affatto. È ovvio che è troppo costoso e richiede tempo. Per questo faccio una proposta: effettuare tamponi a campione per capire la reale diffusione del contagio nella popolazione italiana».

Quanti ne servirebbero, ventimila?
«Penso la metà, forse anche meno. Oggi i tamponi si fanno in qualche regione in modo diffuso, in altre con particolare parsimonia e quindi non possiamo leggere i dati in modo chiaro e, di conseguenza, neppure prendere decisioni in modo corretto. Con un campione che rappresentasse 60 milioni di italiani noi saremmo in grado di capire la reale diffusione dell'epidemia nei territori, per fasce d'età, per categorie professionali, per genere. Ora si agisce senza un disegno e in Italia dopo mezzo milione di tamponi ancora non siamo in grado di proiettare quello che abbiamo scoperto sulle persone sottoposte ai test alla popolazione generale».

Ma in una situazione simile come si fa a realizzare i test a campione? Non è un sondaggio d'opinione che fai al telefono.
«Si possono campionare le farmacie oppure, meglio, i medici di base. E poi ciascun medico campionato provvede a individuare tra i suoi pazienti le persone con le caratteristiche demografiche indicate dall'Istat. Tutto si può realizzare: l'importante è avere una strategia».

Abbiamo parlato solo d'Italia, ma se ci si guarda attorno non sembra che ci sia molta trasparenza. E non mi riferisco a paesi tradizionalmente opachi ma a quelli europei. Non è che tra le vittime del virus c'è Eurostat?
«Bella domanda. Il compito di Eurostat è proprio coordinare i criteri di rilevazione dei singoli Stati dell'Unione per produrre statistiche confrontabili. E invece assistiamo a dati formalmente comparabili come il numero dei morti e che invece seguono criteri diversi e neppure troppo trasparenti, a meno che non si voglia credere che davvero in Germania le vittime siano così poche. Voglio dire, può anche essere ma per dirlo dovremmo aver utilizzato le stesse metodologie di rilevazione. È possibile che Spagna e Italia abbiano sbagliato qualcosa ma allora dobbiamo capire perché questi due Paesi stanno soffrendo di più e come fronteggiarlo».

Un'ultimo tema. L'Istat ha annunciato che non diffonderà i dati sulla fiducia degli italiani in calendario per il 24 aprile. Possiamo immaginare che sarebbero stati pessimi, ma perché saltare la rilevazione?

«C'è sicuramente una ragione tecnica. Io sono per la produzione della statistica ufficiale sempre e comunque. Senza numeri, si lascia spazio a chi soffia sul fuoco».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino