NEW YORK - Le luci dell'albero di Natale non si erano ancora spente quest'anno, e i botti delle candidature per le prossime presidenziali negli Usa erano già in...
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Non è un caso se tra le dieci candidature già annunciate dai democratici, quattro sono quelle femminili, tra cui quella che al momento viene indicata come la favorita ai nastri di partenza. Kamala Harris è una giurista eletta al senato dalla California, e porta scritta sul volto la complessità di riferimenti che ha alle spalle: la pelle ambrata del padre giamaicano, e gli zigomi alti della mamma indiana Tamil. Nei grafici disegnati dai sondaggisti occupa la porzione più ampia del poligono democratico, che ha per lati gli elettori di colore, gli ispanici e gli asiatici, e poi i millennials, la base del partito ma anche la sua sinistra.
Gli elettori degli Usa premiano sempre candidati moderati, conservatori o progressisti, ma capaci di richiamare l'attenzione delle frange della società statunitense. La Harris ha tutti questi connotati, e si è messa in mostra con lo stile garbato ma implacabile dei suoi interrogatori nella commissione Giustizia del senato. Per vincere dovrà però superare due pregiudizi che giocano contro di lei: quello razziale, che è diventato più forte al termine del mandato Obama, e quello contro le donne, che ha in parte affossato la popolarità di Hillary Clinton.
Alla sinistra della Harris lo spazio che fu di Bernie Sanders nel 2016 si è moltiplicato finora per tre, con l'aggiunta di Elizabeth Warren e di Beto O'Rourke. La prima rappresenta la voce moralista contro gli abusi della finanza e la corruzione del palazzo; il secondo è dipinto come l'Obama bianco del nuovo Texas, industriale e millenarista. Daranno sicuramente del filo da torcere a Sanders, e se il vento della protesta anti-trumpista dovesse prendere forza, potrebbero entrambi divenire protagonisti.
Dal sud viene anche il messicano-statunitense Julian Castro che farà della politica migratoria il suo cavallo di battaglia; dal nord vengono invece l'afro americano Cory Booker, coriaceo difensore dei diritti delle minoranze, e l'inossidabile Joe Biden, ex vice di Obama, una figura paternalistica di grande richiamo popolare. La wild card è Michael Bloomberg, quindici volte più ricco di Trump e con molta più esperienza politica alle spalle (è stato sindaco di New York per 12 anni). Le sorprese potrebbero venire dalla senatrice Kirsten Gillibrand, beniamina del partito, e la qualificatissima Amy Klobuchar, una delle presenze più efficaci e preparate nella camera alta. L'opzione più temuta è quella dell'arrivo sulla scena di una candidatura indipendente, che possa fiaccare le forze dell'opposizione e favorire la rielezione di Trump. L'ex ceo della Starbucks Howard Schultz ha lanciato l'idea ieri con un tweet, ed è stato immediatamente travolto dalle critiche dell'intero movimento progressista, memore del ruolo che Ralph Nader giocò nel 2000 contro Al Gore e a favore di George W. Bush.
Tutti questi politici sono scesi in campo con una piattaforma di opposizione a Donald Trump, ma non è scontato che l'attuale presidente sarà il candidato repubblicano da battere. Trump ha già in tasca 100 milioni di dollari per la campagna e partirà a razzo, forte dell'ufficio che riveste. Il voto di metà mandato ha messo in mostra il pugno di ferro con il quale cinge i repubblicani al congresso, ma altrettanto evidenti sono le crepe che i suoi atteggiamenti aggressivi e beffardi, spesso capricciosi, hanno aperto tra gli elettori (il gradimento di cui gode è poco superiore al 40%). Grandi finanziatori del partito repubblicano come i fratelli Koch hanno già ritirato il loro appoggio per il 2020, e le voci di dissenso tra i conservatori del congresso, sotterranee e sopite a lungo, sono divenute visibili e sonore nel recente dibattito sul blocco della spesa di governo e la costruzione del muro di frontiera con il Messico. La più forte è stata quella del senatore dimissionario Jeff Flake, che secondo molti sta per lasciare l'incarico a Washington per preparare la sua discesa in campo. L'ex governatore dell'Ohio John Kasich sembra disposto a riprovarci dopo la sconfitta del 2016, e quello del Maryland Larry Hogan è sui blocchi di partenza. Non è invece ancora apparsa finora, e sarebbe sorprendente se non dovesse concretizzarsi, la candidatura a destra o a sinistra di un personaggio disposto a sfidare Trump sul campo che gli è più congeniale: quello dell'iperbole linguistica e dei grandi pronunciamenti populisti che lo hanno aiutato a sedersi alla casa Bianca. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino