Mesina, Cutolo, Vallanzasca: le più grandi fughe rocambolesche dal carcere

Mesina, Cutolo, Vallanzasca: le più grandi fughe rocambolesche dal carcere
«Una fuga così significa che praticamente siamo su Topolino», commentò il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. E certamente nell'agosto del...

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«Una fuga così significa che praticamente siamo su Topolino», commentò il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. E certamente nell'agosto del 2019 sembrava inverosimile, roba da fumetti, che qualcuno fosse riuscito a evadere calandosi con le lenzuola dall'antico carcere-fortezza napoletano di Poggioreale. Ci era riuscito, come non accadeva da oltre 100 anni, Robert Lisowski detenuto 32enne polacco, in carcere per aver ucciso un 36enne ucraino dopo una lite. Aveva confezionato una corda con le lenzuola e si era calato dalle mura di cinta, senza che nessuno se ne accorgesse. In piena Napoli, in uno delle maggiori carceri italiane. La fuga di Lisowski durò solo 48 ore, fu riacciuffato nei dintorni di Piazza Mercato. Ma la sua impresa era stata da storie a fumetti.



Nell'Italia repubblicana, quasi nessuno come Graziano Mesina si è reso protagonista di tante evasioni, nei modi più diversi. Il bandito sardo, specializzato nei sequestri di persona, ne ha collezionate ben dieci. La più famosa nel 1964, quando «Grazianeddu» si calò dalla toilette del treno, fermo alla stazione di Macomer, che lo portava verso il tribunale dove doveva partecipare a un suo processo. Beffò gli agenti di scorta. Nel carcere di Nuoro, invece scavalcò il davanzale di una finestra per calarsi giù attraverso un grosso tubo dell'acqua. Dal carcere di Sassari, poi, fuggì scendendo dal muro di cinta. E persino dalla detenzione all'isola d'Elba riuscì a eclissarsi. Un vero recordman.

Anche Renato Vallanzasca, il «bel René, capo di una famosa banda di rapinatori milanesi, tentò più evasioni. La prima, nel 1972 dal carcere milanese di San Vittore, fu cervellotica. Vallanzasca si provocò l'epatite, iniettandosi delle urine nelle vene e mangiando uova marce. In ospedale, riuscì a corrompere gli infermieri per poi scappare facendola franca dalla sorveglianza degli agenti. Nel 1987, poi, organizzò una fuga dall'oblò del traghetto che da Genova lo trasportava al carcere dell'Asinara.
Più rumorosa fu l'evasione di Raffaele Cutolo, il fondatore e capo della nuova camorra organizzata, dall'ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa il 5 febbraio del 1978. Ci riuscì con la complicità del capozona di Acerra, Giuseppe Puca, che piazzò all'esterno dell'edificio una carica di nitroglicerina che squarciò le mura d'ingresso. Cutolo ebbe spianata la via di fuga, con i complici che lo aspettavano su un'auto fuori la struttura. Fu il periodo maggiore di latitanza del boss, che venne ripreso in una casa di campagna ad Albanella alle porte del Cilento solo il 15 maggio del 1979.

Colpisce come, tra i detenuti in fuga negli ultimi anni, ci siano stati tanti stranieri. Lo sono i tre evasi nelle ultime ore dal carcere di Bellizzi Irpino, con due di loro ancora in fuga. Ma lo erano, agli inizi di quest'anno, i due albanesi evasi dal carcere di Vercelli dove scontavano una condanna fino al 2029 per una serie di rapine compiute nelle ville della provincia vercellese. Rocambolesca la dinamica, con i due che si sono calati nel perimetro interno del carcere per poi arrampicarsi sul muro di cinta e scavalcare aiutati da corde scaraventate dentro da un complice all'esterno. Uno dei due in fuga è caduto, rompendosi un braccio. È stato subito ripreso, mentre l'altro, il 27enne Kristjan Mehilli che deve scontare una pena di dieci anni, è scappato. Come spesso accade, sono stati i sindacati degli agenti penitenziari a commentare l'episodio: «Il muro di cinta della struttura carceraria vercellese è inadeguato e inagibile da anni. Una vergogna e l'ultima è stata un'altra evasione annunciata» ha denunciato in un documento il sindacato Sappe.

A giugno del 2020, invece, riuscirono a fuggire dal carcere romano di Rebibbia due detenuti rumeni. Anche in questo caso è bastato scavalcare il muro di cinta, con l'aiuto di una manichetta dell'acqua. Un giochetto semplice per il mancato funzionamento del sistema anti-scavalcamento, ma anche per l'assenza di agenti penitenziari lungo il muro di cinta. Ancora una volta, ha scritto il Sappe in un suo comunicato: «È la conseguenza dello smantellamento delle politiche di sicurezza, unito alla carenza di organico».

Lo scorso settembre, Vincenzo Rossetti, rapinatore leccese 39enne, ha utilizzato un metodo rischioso per scappare. Nella sua cella a Bari, si era ingoiato una lametta tagliente, per farsi portare in ospedale. Da qui è stato per lui più facile evadere, approfittando delle mani liberate dalle manette per consentire di praticargli una endovena. Il rapinatore ha dato una violenta testata a uno dei tre poliziotti che lo piantonava e poi è riuscito a fuggire. Sempre in Puglia, ma nel carcere di Trani considerato tra quelli di massima sicurezza, altre due evasioni nell'agosto dello scorso anno. Due detenuti baresi sono riusciti a scavalcare il muro di cinta, che sembra davvero il punto debole di tutti i penitenziari italiani.

Dal super carcere di Frosinone, invece, era riuscito a fuggire nel settembre del 2018 Alessandro Menditti, considerato uno dei pericolosi capi del clan Belforte di Marcianise. Aveva scavalcato il muro di cinta insieme con il suo compagno di cella Ilijan Boce che si era però ferito. La sua fuga è durata solo una settimana, nascosto in un edificio sequestrato ai genitori a Recale in provincia di Caserta. Fu aiutato da quattro complici albanesi, poi arrestati due anni dopo individuati attraverso un'indagine sui tabulati telefonici. Anche in questo caso la ricostruzione della dinamica di quella fuga sembrava da film: le sbarre della cella tagliate, un buco praticato nel muro dietro il televisore senza che nessuno se ne fosse accorto. Poi, ancora una volta, le lenzuola annodate per scavalcare il muro di cinta dal tetto con l'aiuto anche di un arpione. Ma non era finita, nell'evasione che rivelò le carenze del sistema di sicurezza: Menditti e il suo compagno di cella era in possesso anche di due telefonini per comunicare con i quattro complici albanesi. Insomma, le lenzuola annodate e le mura di cinta scavalcate sembrano un soggetto diventato un vero classico nelle evasioni degli ultimi anni. Altro che film del passato, questa è realtà del presente.

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Il Mattino