Avvolto da nuvole di fumi rosati, con in testa turbanti di fumi bianchi e immerso in volute barocche di fumi neri il Vesuvio sembra l’immagine del mondo come è stato...
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Proprio quando non ci sono parole sufficienti, si ricorre alla forza dell'immagine: il vulcano con i boschi devastati dagli incendi dolosi che sembra il vulcano che esplode in una nuova eruzione. Un'icona? Che parola meschinamente insufficiente! L'immagine del Vesuvio in mezzo alle bufere ardenti non è un'icona, ma l'emergere da passati remotissimi di un animale immenso fatto di natura. Icona? Le icone sono giochetti e simulacri, e il Vesuvio, che dal mare scintillante o dalle città arroventate si scorge come un indecifrabile guardiano, non è un gingillo: quel vulcano è noi stessi. Lo vediamo di sfuggita ogni giorno inerpicandoci per un cavalcavia costruito male, ci assale maestoso sulle tangenziali insufficienti al traffico e sulle autostrade che ci promettono una fuga che non esiste: e non abbiamo bisogno di fissarlo per accorgerci che esiste, perché noi che viviamo qui quel vulcano lo sentiamo scorrere nelle nostre vene. Per secoli e millenni ha scandito il tempo umano, seppellendo intere città, e trasformandole in memoria minerale; spingendo uomini atterriti a portare in processione le loro divinità e a organizzare la vita sull'orlo della precarietà; e spaventando generazioni intere con i brontolii sordi di un animale preistorico e le esplosioni di una guerra di lave. Ma lo ha fatto come agivano gli dèi: semplicemente perché lui è così, secondo i flussi e i riflussi della natura.
È per questo che il Vesuvio ci affascina persino quando sembra promettere disastri: ma è sempre per questo che le immagini delle corde di fumi che lo strangolano oggi ci fanno rabbrividire. Oggi quei pennacchi e quelle volute sul Vesuvio non ci ricordano, con una lezione sempre necessaria per la tracotanza degli uomini, quanto siamo dipendenti dal regno naturale e quanto dobbiamo cercare di convivere con esso: no, non è questo che il Vesuvio ci ricorda oggi. Oggi i suoi fumi spettrali ma pesanti sono i segnali di miserabili esseri cosiddetti umani che distruggono la natura dei boschi e la cultura degli uomini, i creatori di deserti che vogliono portare la terra bruciata che hanno dentro le loro animucce nel mondo intero, e sono felici di arraffare i trenta denari che spettano ai traditori dell'umano. È per questo che dietro lo stupore che nonostante tutto la bellezza induce in noi come un'ipnosi, l'immagine di questo Vesuvio è l'apparizione di uno sfregio insensato. Ma l'offesa è per noi, non per il vulcano. Dalle spiagge scintillanti e dalle città africane come dal cemento suburbano e dalla quieta collina noi lo guardiamo, e non possiamo staccare l'occhio dal grande animale che dorme e sogna catastrofi: e lui resta là, come un'immagine che dobbiamo sempre interrogare, come dovremmo imparare a interrogare tutto il mondo del quale siamo ospiti per conoscere i responsi sul nostro futuro.
Oggi i responsi che il grande animale ci dà non sono benigni, e parlano di un futuro a cui la stupidità umana mozza le ali: parlano di un'assenza di futuro. Ma lui, il vulcano che è il nostro specchio, è là: e aspetta altre domande. Domandiamo ancora, e anche se le risposte non sono di nostro gradimento torniamo a domandare, perché ciò che la natura dice senza parole merita di essere ascoltato e decifrato: nel bene e nel male, nel sogno e nella realtà, nel sonno e nella veglia, il vecchio vulcano parla di noi, ancora e ancora. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino