Il boss Raffaele Cutolo rompe il silenzio: «Vogliono farmi pentire, ma io non tradirò mai»

Il boss Raffaele Cutolo rompe il silenzio: «Vogliono farmi pentire, ma io non tradirò mai»
Mi aspetta in piedi nella stanzetta dei colloqui. È un po' ricurvo e si appoggia sul supporto del divisorio dall'altra parte del vetro. Appena mi vede strizza gli...

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Mi aspetta in piedi nella stanzetta dei colloqui. È un po' ricurvo e si appoggia sul supporto del divisorio dall'altra parte del vetro. Appena mi vede strizza gli occhi per mettere a fuoco l'interlocutore - che ha ottenuto il colloquio per avere una testimonianza diretta in vista di un libro su Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso nel 1981 - e poi lentamente si siede. Raffaele Cutolo, boss di Ottaviano con numerosi ergastoli sulle spalle per condanne di associazione camorristica e omicidi, è l'anziano detenuto che ho di fronte in una piccola sala del supercarcere di Parma.


Capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata, che si contrapponeva ai clan della Nuova Famiglia in una guerra che all'inizio degli anni 80 fece migliaia di morti, appare trasfigurato rispetto alle immagini che lo hanno ritratto in questi anni. Ha il respiro affaticato, il volto smagrito, i capelli lunghi e la barba incolta, segno di una certa trascuratezza, anche se mantiene un suo contegno. Non l'avrei riconosciuto se non avessi saputo che il carcerato che avevo di fronte era proprio lui. Indossa una camicia blu con delle righe bianche e un jeans azzurro, ma non porta più quegli occhiali dorati, indossati poi anche dai suoi seguaci, che gli davano quell'aria da intellettuale, da cui scaturì il famoso soprannome: «'O professore».
 
Ha perso il piglio risoluto e sarcastico che contraddistingueva le sue uscite ma conserva una grande memoria e il senso di humor. Ricorda fatti e nomi con una grande lucidità e ogni tanto accenna a una battuta. Insomma non è più la star sotto i riflettori, come quando con aria compiaciuta rispondeva alle domande di Joe Marrazzo in un'aula di un tribunale sapendo di essere al centro dell'attenzione mediatica. Oggi il vecchio don Raffaele mi ascolta tendendo l'orecchio proteso verso la cornetta con cui comunichiamo e, dopo aver preso fiato, parla con una certa fatica.

«Come sta?», gli chiedo. «Aspettiamo la morte», mi risponde con un tono secco. E aggiunge: «È assurdo che dobbiamo fare questo colloquio con questo vetro in mezzo». Durante l'incontro parecchie volte ripeterà l'espressione «è assurdo». «Non è meglio la pena di morte? Un attimo di coraggio e poi finisce tutto, così invece è una sofferenza continua». Dice che il suo dolore più grande è il pensiero di non poter più abbracciare la figlia al compimento dei 12 anni di età. «La prossima volta che verrà a trovarmi sarà l'ultima in cui potrò stare accanto a lei ed abbracciarla; poi quando avrà 12 anni e un giorno, si dovrà accomodare dall'altra parte del vetro».

Sembra paradossale che colui che ha provocato lutti e disperazione si trovi a misurarsi con la propria sofferenza. «Ho seminato odio e morte ammette - ed è giusto che paghi. Ma che significa ridurmi in questo stato?». Raffaele Cutolo è l'unico detenuto in Italia a non avere contatti con altri carcerati. Anche l'ora d'aria la dovrebbe fare da solo, senza quella che in gergo carcerario viene chiamata «la dama di compagnia». «Ma che ci vado a fare? - mi dice -. Tanto vale che resto nella mia cella, un ambiente stretto e lungo quanto questa stanza». È in carcere dal 27 febbraio 1963. Poi accenna un sorriso: «Mi sono allontanato solo per un periodo, un po' rumorosamente dall'Opg di Aversa». Se consideriamo che fu scarcerato per decorrenza dei termini durante la prima detenzione per l'omicidio Viscido, si è fatto oltre 54 anni di galera. Nel supercarcere di Parma ci sono circa settecento detenuti di cui una settantina in regime di 41 bis. Qui ha vissuto i suoi ultimi giorni il boss di Cosa Nostra Totò Riina, morto poi nell'ospedale della città. Il personale è estremamente gentile e mi accompagna nei vari ambienti dell'istituto fino a giungere alla sala del colloquio. Un giovane appuntato pugliese, appena sa che vengo da Napoli, accenna alla nostalgia del mare: «Noi meridionali non riusciamo a starne lontano».

«È un giornalista?», mi domanda. E, dopo aver saputo che sono anche un volontario nel carcere di Poggioreale, gli si illuminano gli occhi e comincia a raccontare. «Lì sono cresciuto, e quel luogo lo sento un po' come casa mia. Stavo nel padiglione Milano stanza 13 e poi mi passarono alla numero 1. A Poggioreale divenni un boss perché non sopportavo l'arroganza dei mammasantissima dell'epoca che volevano imporre la loro legge all'interno di quelle mura. La mia fu una ribellione». Resta famosa la sfida a duello di Antonio Spavone, o malommo, che non si presentò al confronto facendo così crescere la fama e il prestigio del giovane guappo di Ottaviano.

Al padiglione Milano si celebrava anche il rituale del caffè ricordato dalla celebre canzone di De Andrè. Gli chiedo se era una storia vera o frutto di una leggenda, ma lui conferma tutto: «Il mio compagno di stanza (che in effetti era un vero e proprio inserviente, ndr) si chiamava Menichiello ed era di Pianura. Ancora non sono riuscito a capire come riusciva a fare un caffè così buono». Così come era vero che il brigadiere Pasquale Cafiero citato dal cantante genovese (il nome di battesimo era effettivamente Pasquale mentre il cognome era diverso) si fermava nella stanza numero 13 per sorseggiare l'espresso: «Veniva da me e mi esponeva i suoi problemi, mi diceva che guadagnava poco e non riusciva a tirare avanti». Anche don Elvio Damoli, il cappellano dell'epoca, mi ha confermato che talvolta era della compagnia: «La mattina si passava da Cutolo e si prendeva il caffè, quando ancora non era arrivato all'apice della sua fama». Una volta ci fu uno screzio tra i due. Mi ha raccontato don Elvio che il boss di Ottaviano gli disse che due carcerati volevano incontrare il prete, ma lui si rifiutò. «Se vogliono parlare con me, lo devono chiedere loro», replicò e per molto tempo non si salutarono più. Alcuni detenuti si offrirono di lavare l'onta e di punire il sacerdote, ma il boss non volle. Finché un tale Barbirotti fece da mediatore e favorì un incontro fortuito in sala magistrati. «Ci incrociammo l'uno di fronte all'altro, ci salutammo e così fu sancita la pace», mi ha raccontato don Elvio.

Il colloquio scorre tranquillo, Cutolo manifesta interesse anche se parlare attraverso il citofono è una grande fatica. Passa la cornetta da una mano all'altra, come del resto faccio io, ma nelle sua dita si scorgono i segni dell'artrite reumatoide che da qualche anno lo ha colpito. Gli chiedo come trascorre le giornate. «Sono sempre uguali», mi risponde. «Leggo poco perché da un occhio non ci vedo più e dall'altro la visione è ombrata. Qualche sera mi cucino la pasta e fagioli, con i legumi in scatola è tutto più facile. E poi guardo qualche programma in televisione: l'altro giorno ho visto quello di Massimo Ranieri, Sogno o son desto». Ma la sua passione, aggiunge, è ascoltare le canzoni di Sergio Bruni: da quando è stato trasferito a Parma non gli è però più consentito. L'unico passatempo che gli resta, sottolinea, è quello di fumare i sigari toscani.

Sono i giorni dell'anniversario della strage di via D'Amelio, parliamo di Borsellino e di Falcone. «Erano - dice - due grandi giudici. Ma Totò Riina era spietato, lo incontrai due volte durante la latitanza e una volta gli buttai la pistola addosso». Ricorda anche l'omicidio di Giancarlo Siani, «un bravo giornalista» che secondo lui fu ucciso dai Nuvoletta perché ipotizzò che la cattura di Valentino Gionta fosse dipesa da un tradimento del capoclan di Marano. «Siani scrisse degli articoli anche contro di me, ma non me la presi perché faceva il suo mestiere».

Il feroce boss di Ottaviano fu condannato all'ergastolo per essere stato il mandante dell'omicidio di Giuseppe Salvia, sono da lui proprio per rievocare quella tragica vicenda. «Mi faceva sempre perquisire - dice - ogni volta che entravo e uscivo dalla cella, e non ne potevo più. Provavo rancore. Mi dispiace ma che potevo fare?». In buona sostanza Salvia, straordinario servitore dello Stato, metteva in discussione il suo prestigio all'interno di quelle mura. Sui casi Moro e Cirillo il boss di Ottaviano è perentorio: «Seppi da uno dei componenti della banda della Magliana, un tale Nicolino Selis, il covo dove era nascosto lo statista, e lo feci sapere ad Antonio Gava che però mi mandò a dire: don Rafè fatevi i fatti vostri». Ad Ascoli Piceno ricorda il via vai di politici che andavano da lui per chiedergli di salvare la vita dell'assessore regionale campano. «Eppure - sottolinea arrabbiandosi - Pertini mi fece chiudere all'Asinara. La Nco non fu sconfitta dallo Stato ma da Ciro Cirillo».

La sua lunga carcerazione è stata segnata da eventi drammatici. Come quando seppe dai giornali del decesso della mamma. «Morta la madre di Cutolo: funerali non pubblici a prima mattina», titolò un quotidiano. Della perdita del figlio Roberto fu invece avvisato dal direttore del carcere di Belluno che andò da lui di prima mattina. Quando rievoca il figlio, la voce si incrina e rivolge gli occhi al soffitto: «Ah, Roberto, Roberto». Le notti del detenuto Cutolo, che resta sempre il re delle mezze verità, sono segnate da incubi e tormenti. «A volte sogno tutti questi morti uccisi, Carlo Biino, Pasquale D'Amico il cartonaro, che si è pentito; me li sogno tutti». Parla dei suoi incubi e viene fuori il discorso sul pentimento. «Fino a due anni fa sono venuti per convincermi a parlare. Quando stavo nel carcere di Carinola mi proposero di andare in una villetta con mia moglie per fare l'amore con lei, ma io non ho voluto; non volevo far arrestare qualcuno per poter stare con Immacolata, non l'avrei mai accettato. Il pentimento è davanti a Dio».

Il boss di Ottaviano, il feroce boss di Ottaviano, durante la sua ascesa criminale ha raccolto giovani violenti e sbandati nelle carceri e nei quartieri periferici. Ha dato loro una identità e la convinzione che con la violenza e il terrore si acquisissero potere e prestigio, come ha scritto Isaia Sales. Un testimone mi ha raccontato che Michele Iafulli, affiliato alla Nco, quando era detenuto nel padiglione San Paolo, aveva fatto un altarino con la foto di Cutolo proprio per attestare la grande devozione verso il capo. «Quale è il futuro della camorra? Che direbbe ai giovani criminali di oggi?», gli chiedo. «Non c'è futuro per la camorra - mi risponde -. Questi sparano nel mucchio, colpiscono persone e bambini che non c'entrano niente, noi invece andavamo mirati su una persona. Certo era sbagliato anche quello, ma almeno non colpivamo a casaccio; oggi non si capisce più niente». Veste i panni del saggio e dice che i giovani devono cambiare strada e costruire il loro domani sul lavoro: «Non è meglio mangiare una bistecca fuori piuttosto che qui dentro? Io ho fatto tanto male ed è giusto che resti qui dentro. Avevo un mio ideale ma quello che ho fatto era sbagliato».


«Ho fatto tanto male»: le parole mi risuonano nella testa mentre penso che fuori da qui, fuori dal carcere, in 100mila hanno firmato una petizione per chiedere la liberazione di questo anziano, feroce signore che mi sta davanti. Penso che la figura di Cutolo continua ad esercitare un fascino potente; e penso che siamo di fronte ad un fenomeno, un fenomeno che andrebbe studiato a fondo e compreso meglio. Mentre inseguo i miei pensieri, la voce dell'agente di guardia annuncia che il tempo è scaduto. Sì, non c'è più tempo: il colloquio è finito, anche se ci sarebbero ancora tante altre cose da dire e molte domande da fare. Cutolo si alza e sta per andarsene. Prima di uscire dalla stanza, quasi sussurra: «Faccia un sorriso ai giovani detenuti di Poggioreale, cerchi di aiutarli per non fargli prendere una brutta strada». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino