Draghi style, sorriso sornione e parole pungenti: l'efficacia del «Draghi Style»

Draghi style, sorriso sornione e parole pungenti: l'efficacia del «Draghi Style»
«Quarto. Il governo va avanti». Il soggetto c’è, il verbo pure: la frase è finita e la risposta è data. Mario Draghi non spende molte...

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«Quarto. Il governo va avanti». Il soggetto c’è, il verbo pure: la frase è finita e la risposta è data. Mario Draghi non spende molte parole, in conferenza stampa. Non lo ha mai fatto. Al tempo del suo primo incontro con i giornalisti, esordì dicendo «due parole di introduzione»: non furono molte di più. Nell'incontro con la stampa prima della pausa estiva non ha usato un diverso giro di frase: «due parole soltanto perché non sono qui per celebrare niente». E anche nell'ultimo appuntamento ha usato lo stesso stile asciutto, essenziale, concreto.

Gli chiedono un giudizio sulle resistenze della Lega in materia di vaccini e green pass, sui dissapori fra Lega e Partito democratico, e lui dà una risposta in quattro punti, che mette in fila in poco più di un minuto: primo, la cabina di regia si farà, per decidere non «se» estendere il green pass, quello è già deciso, ma «a chi e quanto svelti». Secondo, il chiarimento politico lo fanno le forze politiche. Terzo, è auspicabile una maggiore convergenza e disciplina nelle deliberazione politiche. Quarto, il governo va avanti. Non aggiunge altro. 

Nei miei ricordi liceali sopravvive ancora la distinzione fra lo stile attico conciso, piano, incisivo e lo stile asiano ampolloso, sonoro, prolisso. Mario Draghi conosce solo il primo, e davvero fa poco o nulla per infiocchettare le sue risposte. Dopo le scoppiettanti slide di Renzi e le verbose paternali di Conte, uno stile comunicativo del genere fa l'effetto di un salutare richiamo alla realtà dei fatti. I fatti, dico, non i numeri. Nessuno dubita, infatti, della dimestichezza di Mario Draghi con i numeri, con le percentuali, le statistiche. Ma anche i numeri possono essere usati sapientemente, e snocciolati con malcelata intenzione retorica: non cioè per informare, ma per impressionare. Draghi si priva anche di questo effetto.

Il commento sull'economia italiana è esemplare, da questo punto di vista: non cita le cifre, più rosee del previsto. Avrebbe potuto mettere in fila una serie di dati molto positivi, per celebrare i suoi primi mesi di governo. E invece no: niente numeri. Al loro posto, la seguente osservazione: «Non credo valga la pena compiacersi: chi è caduto di più rimbalza di più, chi è caduto di meno rimbalza di meno. La vera sfida è mantenere un tasso di crescita considerevolmente più elevato di quello che si aveva prima della pandemia». 

Nessun compiacimento, dunque. E davvero l'ultima cosa che Draghi fa, quando parla in pubblico, è compiacersi. Se dice che vedrà Macron, non lo dice con il tono di chi si soddisfa di parlare con i Grandi della Terra: non ne ha bisogno. Se parla di Afghanistan, non finge di avere soluzioni in tasca, perché non ce l'ha (come nessuno, d'altronde).

E se conferma che, a suo dire, il G20 si farà, non lo fa per celebrare la sua iniziativa, ma perché quel che conta è il risultato. È così misurato, nelle parole, che non spende nemmeno un po' di retorica patriottica per impersonare il Paese e dire che l'Italia fa questo o fa quello. Parla solo del lavoro suo e del governo, e va dritto al punto. Gli chiedono dell'obbligo vaccinale e della terza dose, e lui risponde: «sì a entrambe alle domande», sì all'obbligo vaccinale e sì alla terza dose. Più chiaro di così. E il bello è che la cosa non suona né fredda né distaccata: suona semplicemente chiara e convinta. Quel che Draghi pensa, oltre a quello che dice, passa attraverso minime indicazioni: attraverso una sfumatura della voce, un ghigno appena allungato sul volto, una mezza battuta. A volte Draghi è sornione: lascia dire, lascia intendere, senza mai scomporsi o scoprirsi troppo. Gli chiedono del confronto tra Salvini e Lamorgese e lui dice senz'altro, per quanto lo riguarda, e si capisce che ha già in testa come finirebbe un simile confronto. Poi aggiunge: meglio non in televisione, o in streaming, e di colpo fa capire che quello che siamo da trent'anni abituati a chiamare il teatrino della politica, in tutte le sue varianti populiste, narcisiste, ruffiane, elettoralistiche, da avanspettacolo o da salotto , è proprio ed esattamente questo: un teatrino.

Il premier parla con tono quasi monocorde, muove molto poco le mani, tiene gli avambracci poggiati sul tavolo e quasi non muove il busto. Non so molto di linguaggio del corpo, ma immagino sia da spiegare perché, nonostante questa postura, la comunicazione non appaia affatto rigida e ingessata.

Draghi guadagna in credibilità senza perdere in dimestichezza. Conta, forse, un certo garbo. Conta qualche piccola inflessione romanesca. Conta anche la piccola sgrammaticatura. Il soggetto non concorda subito col verbo e si capisce che il premier sta cercando le parole, non le tiene già pronte. Di tutte, questa è la nota di verità che vale forse più di tutte. Non solo il politico, ma anche il cantante che spiega l'ultimo disco o il calciatore che parla dopo la partita ricorre a un vocabolario di frasi fatte, che torna sempre uguale. Col cantante e con il calciatore si finisce col non farci caso, perché c'è comunque il disco, o la partita. Con il politico, gli italiani sono ormai meno indulgenti. Dopo Mario Draghi, mi auguro lo siano ancora meno.

Però il dopo non è alle viste, e non è certo nei pensieri del Presidente del Consiglio. Quarto, il governo va avanti, e fa una cosa a cui non eravamo abituati: mette le carte in tavola, e si fa giudicare senza vendere fumo. Non è poco. 

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Il Mattino