Trattativa Stato-mafia, la difesa di Mancino: «Sta trionfando un teorema ma mi difenderò in aula»

Trattativa Stato-mafia, la difesa di Mancino: «Sta trionfando un teorema ma mi difenderò in aula»
«Non ora. Parlerò in aula, durante il dibattimento. Lì consegnerò ancora una volta la mia verità. Oggi preferisco non dire niente». Nicola...

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«Non ora. Parlerò in aula, durante il dibattimento. Lì consegnerò ancora una volta la mia verità. Oggi preferisco non dire niente». Nicola Mancino trattiene il giudizio, ma non nasconde la sua profonda amarezza. «Amareggiato, certo, e comunque tranquillo. Io non c'entro niente, tutti dicono che non c'entro niente eppure ancora una volta sta trionfando il teorema».


Quando pronuncia la parola «teorema», l'ex presidente del Senato oggi ottantaseienne, già vicepresidente del Csm e soprattutto ministro dell'Interno tra il 1992 e il 1994, mostra di essere estremamente provato dalla vicenda giudiziaria che lo vede suo malgrado tra i protagonisti. Chi gli sta accanto lo ha visto subìre il peso delle accuse come una pesante infamia, una sorta di incubo da cui difficile uscire. In base a quello che definisce «teorema», dopo 210 udienze che si sono snocciolate per 4 anni e 8 mesi, la Procura di Palermo ora ha chiesto la sua condanna a 6 anni di carcere per falsa testimonianza nell'ambito del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. «Per avere - sostiene il pm Vittorio Teresi - deponendo come testimone, innanzi al Tribunale di Palermo nel processo nei confronti di Mario Mori e di Mauro Obinu, anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni la impunità rispetto ai fatti, affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva intorno ai fatti sui quali veniva interrogato. In particolare, affermando falsamente di non essere mai venuto a conoscenza: dei contatti intrapresi, in epoca immediatamente successiva alla strage di Capaci, da esponenti delle istituzioni, tra i quali gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, con Vito Ciancimino e per il tramite di questi con gli esponenti di vertice dell'associazione mafiosa di Cosa Nostra». Richiesta simile per Massimo Ciancimino, accusato di calunnia nei confronti dell'ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro: la Procura chiede 5 anni.
 
Mancino, l'11 novembre scorso, a proposito della morte di Totò Riina, a «Il Mattino», ebbe a rivendicare il suo ruolo. Nominato ministro dell'Interno proprio a cavallo tra le stragi di Capaci e di via D'Amelio con gli assassinii di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e degli uomini delle loro scorte, in carica quando il 15 gennaio 1993 il «capo dei capi» di Cosa Nostra venne arrestato dopo 24 anni di latitanza, Mancino affermò: «Io ho combattuto a viso aperto la mafia e ritengo di aver incassato alcuni successi importanti. Non solo, ho anche affermato più volte e con forza che la mafia non fosse mai finita e non si fosse mai indebolita. Anzi, per lungo tempo è riuscita addirittura ad ampliare il raggio d'azione, per questo ho sempre sostenuto che dovessero permanere, nei confronti dei suoi esponenti, le misure più dure possibili. Quanto alle accuse, dico solo che non mi colpisce la mafia. Io vado avanti ogni giorno con la piena consapevolezza di aver sempre servito unicamente le Istituzioni».

In aula a Palermo, confermerà questa sua posizione.

Secondo testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, dopo la strage di Capaci si sarebbe avviata una trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. Secondo Massimo Ciancimino la trattativa era gestita dal padre Vito Ciancimino che avrebbe chiesto sempre secondo la testimonianza del figlio e ottenuto di informare Mancino. Il giudice Borsellino ne sarebbe stato al corrente e la sua mancata adesione al piano sarebbe stato il movente dell'attentato del 19 luglio 1992. Mancino ha sempre negato di aver avuto questa informazione.

L'ex ministro aveva affidato a un documento di 22 pagine la sua difesa, scegliendo di non farsi interrogare in aula. «Non presto il consenso all'interrogatorio», aveva detto rispondendo a una domanda del presidente del collegio Alfredo Montalto. In particolare, a Mancino si contestavano le difformità tra le sue dichiarazioni e quelle degli ex ministri Claudio Martelli e Vincenzo Scotti a proposito della condotta del Ros dopo le stragi del '92, dei contatti dei Carabinieri con l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, e della ricostruzione dei motivi che portarono alla sua nomina alla guida del Viminale al posto di Scotti.

Martelli, nel 1992 ministro della Giustizia, disse ai giudici di essersi lamentato con Mancino di irregolarità nelle condotte del Ros e di avergli detto che i Carabinieri avevano avviato colloqui e incontri con Ciancimino. Mancino ha sempre negato di aver mai parlato delle due circostanze con Martelli.


«Quel giorno della mia visita di cortesia, Martelli non mi parlò dei comportamenti del Ros aveva sostenuto Mancino perché parlarne a me, se lui ministro della Giustizia, poteva rivolgersi direttamente al Comandante generale dei Carabinieri o al Procuratore competente per territorio?». «A me, di Vito Ciancimino interlocutore del Ros nessuno, dico nessuno, mi ha mai parlato. Se dichiaro nessuno includo ovviamente anche l'onorevole Martelli», aveva aggiunto. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino