C’è una industria, a Napoli, che non conosce battute d’arresto, intoppi o crisi. C’è una fabbrica, quella del cinema, che si distingue per la forza...
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Eppure, che cosa sta succedendo alla Realtà? Come viene raccontata, in altre parole, la vita di una città come Napoli? Con quali forme? Perché di certo c’è un dato fuori discussione: ormai a farla da padrona è sua maestà la Fiction. Storie ambientate a Napoli, certo, ma inventate, scritte di sana pianta da abili sceneggiatori, messe in scena da bravi registi, costumisti, scenografi. Impersonate da attori che interpretano personaggi inesistenti. In una sola domanda: che ne è del cinema del Reale? Sembra, a guardare la lista di titoli distribuiti o ancora in produzione, che l’unico diritto di esistenza culturalmente e socialmente riconosciuto sia affidato alla fiction. Anche quando questa pretende di raccontare la realtà dei nostri giorni. Gomorra, per fare un solo esempio tra i molti.
Al racconto finzionale, addirittura, viene affidata la bruciante esperienza del carcere minorile di Nisida (“Mare fuori”, la nuova fiction Rai in arrivo l’anno prossimo), con tutto il suo carico di biografie dolorose. C’è bisogno, anche in questo caso, di inventare? Di scrivere personaggi e storie tirate fuori dalla fantasia di un team di autori? Ben venga la fiction di qualità, dicevamo. Eppure, non dovremmo avere più bisogno di prove o dimostrazioni della forza straripante di cui è capace di nutrirsi il cinema documentario alle nostre latitudini. Bastino solo due esempi tra i molti – lo strepitoso “Selfie” di Agostino Ferrente o il lavoro fatto da Antonella di Nocera con gli “Atelier di cinema del reale” a Ponticelli, proprio in una di quelle periferie napoletane saccheggiate dalle grandi produzioni di cinema, ma da queste mai raccontate nella loro contraddittoria complessità).
Dove sono gli invisibili senza volto che, come legione, attraversano a migliaia le strade della nostra città ogni giorno? Dove sono i suoi paesaggi industriali? I treni regionali, gli ospedali, gli anziani e i poveri? Dov’è quella umanità silenziosa e umile o violenta e sopraffattrice? Napoli è letteralmente travolta, ogni giorno, da urgenze e dilemmi, da dissonanze e squilibri, che nel cinema documentario dovrebbero trovare la loro irrinunciabile collocazione. Non tutto può e deve essere reso a tutti i costi simbolo, o emblema, per il tramite della Finzione. E se non vogliamo parlare di Reale o Realtà – categorie sempre scivolose da maneggiare – allora possiamo fare nostra la nozione più concreta di “contingenza” così come la spiega lo scrittore Gianni Celati: «Qualcosa che allarghi il nostro pensiero: l’esposizione all’inatteso, al fuori, di una situazione contingente». Tutto questo affinché l’alternativa non sia quella tra una fiction di consumo, molto remunerativa ma in fondo inoffensiva, e un cinema del Reale che sappia anche turbarci, ponendoci delle domande difficili, facendoci guardare anche le ferite. Vale a dire l’unica cosa necessaria che resta, quando la marea dell’industria cinematografica si ritira lasciando spesso un greto disseminato di discorsi vuoti, buoni per due chiacchiere al bar e uno status su Facebook. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino