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«I russi sono alle porte della città e noi ci prepariamo alla battaglia finale». Oleksandr Serhiiovych sindaco della città ucraina più ad est del Donbass riesce a mantenere la calma, nonostante tutto. «Siamo senza acqua, senza gas e senza elettricità». Dei 120 mila abitanti che in tempo di pace abitavano a Sjevjerodonec’k «ne sono rimasti a malapena 25 mila», ammette con un po’ di sconforto. Le comunicazioni sono state interrotte dai bombardamenti: «Abbiamo evacuato più persone possibile. Il blocco delle linee telefoniche ha complicato le operazioni e ora non siamo in grado di rintracciare tutti i residenti». E allora in città non resta che prepararsi a resistere come possibile.
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L’ASSEDIO AEREO
Sjevjerodonec’k è una città fantasma «non esiste un edificio che non sia stato colpito». I check-point sono stati abbandonati anche dai soldati. Ad un incrocio incontriamo un gruppo di militari intenti a scavare una trincea, in previsione della guerriglia urbana. Ormai la domanda non è se i russi riusciranno ad arrivare ma quando decideranno di entrare. La difese fuori città sono ormai al collasso, è solo questione di tempo prima che lo scontro si sposti nelle vie del centro. Dall’inizio della guerra a Sjevjerodonec’k sono morti almeno 400 civili. L’invasione via terra non è ancora cominciata, ma la novità è l’utilizzo dell’aviazione. Visitiamo un quartiere a sud della città, dove le bombe sono piovute giusto da poche ore. Sacha ci racconta di aver sentito chiaramente il passaggio dell’aereo: «Prima il fischio e poi l’esplosione. La bomba ha centrato in pieno l’ingresso del rifugio - poi abbassa lo sguardo -. Un uomo ha perso la vita, era uscito solo per fumare una sigaretta». Tra gli abitanti nessuno riesce a darsi una spiegazione per quello che sta accadendo: «Chissà cosa volevano colpire, qui ci sono solo case di civili».
QUELLI CHE NON FUGGONO
Il palazzo del comune è stato trasformato in un centro logistico per gli aiuti umanitari, ogni giorno vengono aiutate circa 300 persone e 30 famiglie con bambini.
VITA SOTTOTERRA
L’ultima tappa nella consegna di aiuti umanitari è un bunker del periodo sovietico riaperto per l’occasione: da oltre un mese ci vivono 240 persone. Una città sottoterra che con il tempo ha saputo organizzarsi. All’esterno ci sono le cucine da campo, all’interno i simboli sovietici che riportano indietro alla prima guerra mondiale. Slava ha in braccio suo figlio di due anni e nove mesi che non smette di piangere: «Non ricordo più da quanto tempo siamo qui. È umido, ci ammaliamo di continuo». La disperazione diffusa si mescola a momenti di rabbia. Una donna perde la calma e inizia a inveire contro il poliziotto di guardia: «Non ci pagano lo stipendio da due mesi, siamo senza soldi, non sappiamo più come fare. Abbiamo bisogno di medicine». Prima di andare via ci ferma una donna: parla in inglese e ha un messaggio per i cittadini europei: «Fate tutto il possibile per aiutarci a raggiungere la pace, è l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, non chiediamo altro. Non c’è più tempo, non possiamo più aspettare».
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Il Mattino