Acciaio, nichel, argilla: la guerra nel Mar Nero rallenta tutta l'industria

Acciaio, nichel, argilla: la guerra nel Mar Nero rallenta tutta l'industria
Non solo il grano, il mais e i fertilizzanti. Non solo il gas e il petrolio, anche se basterebbero l’agroalimentare e l’energia a spiegare perché il Mar Nero...

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Non solo il grano, il mais e i fertilizzanti. Non solo il gas e il petrolio, anche se basterebbero l’agroalimentare e l’energia a spiegare perché il Mar Nero è diventato così decisivo per le sorti della guerra tra Russia e Ucraina e soprattutto per i futuri equilibri geopolitici ed economici dell’Europa (e non solo). Il blocco dei porti di Kiev e le sanzioni imposte dall’Occidente a Mosca stanno avendo riflessi sempre più preoccupanti anche sulla disponibilità di altre materie prime, dall’acciaio all’argilla, provenienti da quell’area. E di conseguenza continuano a incidere pesantemente sulla crescita dell’inflazione, innescata da costi sempre più alti e, alla lunga, insostenibili anche per le economie più sviluppate. 

Da decenni, il commercio di energia, acciaio e prodotti agricoli ha fatto del Mar Nero (su cui affacciano ben sei Stati) un’arteria strategica per il movimento delle merci all’incrocio tra Europa e Asia: era dunque inevitabile che la rottura di antichi equilibri, a causa della guerra, producesse una reazione a catena le cui più profonde conseguenze sono prevedibili solo in parte.


L’ACCIAIO
Basterebbe ricordare che l’Ucraina, oltre ad essere conosciuta come uno dei granai del mondo (insieme alla Russia), è anche un’importante fonte di acciaio per l’Europa, Italia in testa. Il blocco dei suoi porti, tra Mare d’Azov e Mar Nero, appunto, e lo stop all’export imposto alla Russia hanno fatto schizzare nelle ultime settimane, il prezzo di alcune materie prime utilizzate per la realizzazione delle turbine eoliche, come acciaio, alluminio e nichel. Per le aziende della catena di approvvigionamento è diventato impossibile fare un preventivo di costi per la consegna dei prodotti. Con lo scoppio della guerra, le importazioni di acciaio nei Paesi Ue sono già diminuite di un quinto. È cresciuto invece del 40% il prezzo dell’acciaio laminato a caldo è aumentato del 40%. I produttori hanno ridotto i volumi di attività (l’azienda tedesca Lech Stahlwerke ha interrotto completamente la produzione). Stessi problemi per la fornitura di alluminio, la componente meno impattante per l’industria eolica ma ancora utilizzata per diversi componenti, come i rotori e i cavi. La Russia è inoltre il principale produttore mondiale di nichel, la componente essenziale delle turbine eoliche. Ma è la siderurgia italiana ad essere particolarmente sotto pressione dipendendo quasi totalmente dall’estero per le materie prime. Come ha ricordato Il Fatto quotidiano, «dall’Ucraina proviene circa il 51% della ghisa e il 75% delle bramme (utilizzate per la produzione di lamiere), mentre dalla Russia acquistiamo il 67% del carbone e l’87% del preridotto (pellets di ferro usate al posto del rottame), tutti materiali indispensabili per la produzione di acciaio. Insieme i due Paesi contano per più della metà delle importazioni italiane di semilavorati siderurgici: si tratta di circa 5,5 milioni di tonnellate all’anno».


LA CERAMICA
Se l’acciaio (e dintorni) piange, la ceramica non ride affatto. Manca l’argilla, quella più pregiata proveniente proprio dal Donbass, fondamentale per i distretti più rinomati del made in Italy come quello delle piastrelle in Emilia-Romagna. Le aziende stanno cercando alternative in giro per l’Europa e per il mondo, con enormi problemi di logistica e incognite sempre maggiori sui rifornimenti. «Si cerca di trovare una soluzione di impasti adeguati alla materia prima che veniva dall’Ucraina, per le grandi lastre la plasticità di quell’argilla non la trovano da nessuna parte», ammettono gli industriali del settore. Nel solo scalo di Ravenna, nei primi quattro mesi dell’anno i materiali da costruzione sono calati dell’11,7% rispetto al 2021 mentre la movimentazione di prodotti per la produzione di ceramiche del distretto di Sassuolo è scesa del 12,4%. La ricerca di approvvigionamenti alternativi all’Ucraina ha determinato l’arrivo nel porto di navi provenienti da Turchia, Spagna, Portogallo e India, «scongiurando la rottura di stock paventata dagli imprenditori ceramici italiani, quando lo scoppio del conflitto in Ucraina aveva prospettato che al drammatico rincaro dei costi energetici si sarebbe sommato il problema di mancanza di argille, con il rischio di dover bloccare la produzione di piastrelle ‘Made in Italy” “, si legge in una nota.


LE CONSEGUENZE
Il blocco del Mar Nero sta insomma ridisegnando e soprattutto restringendo il mercato già teso del continente, spingendo i prezzi verso l’alto delle materie prime indispensabili alla crescita. Soffrono le imprese metalmeccaniche che importano materiali dalla Russia e, soprattutto, dall’Ucraina, e che si sono viste costrette a trovare fornitori alternativi per evitare il ricorso alla Cassa integrazione o alle fermate produttive. Dopo le sanzioni, balla pericolosamente quell’1,6% di Pil legato all’export italiano in Russia che peraltro non è solo industriale in senso stretto ma coinvolge anche altri settori, come la moda, con un calo delle esportazioni in quell’area non inferiore al 40%. Ma intanto l’impatto sui prezzi è già una amara realtà e si aggiunge all’impennata del costo dell’energia che, secondo uno studio della Fim Cisl, avrebbe messo a rischio il futuro di 26mila lavoratori, soprattutto al Nord. 


Di sicuro, anche il blocco delle navi sul Mar Nero non lascia prevedere tempi ravvicinati e certi per la riduzione dell’inflazione. Dal settore energetico a quello dei metalli fino all’agroalimentare, le materie prime più ricercate e preziose per la vita quotidiana hanno infatti tutte registrato un balzo a dr poco inaspettato. Al netto di gas e petrolio, dal 24 febbraio, il giorno dell’invasione russa si è assistito a rialzi senza precedenti su carbone termico (126%), nickel (93%), coke (53%), lamiere da treno (41%), rottame ferroso (30%), ghisa da affinazione (29%), palladio (18%), alluminio (19%), zinco (17%), minerale di ferro (16%), legno (10%). È un elenco impressionante e tra l’altro le percentuali di aumento dei prezzi sono forse già sottostimate rispetto al periodo dell’ultima rilevazione. 

 

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Il Mattino