Dodici ore di libertà dopo 23 anni di carcere fanno infuriare i parenti delle vittime della Banda della Uno bianca. Ad usufruire per la prima volta di un permesso premio...
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«I nostri morti non hanno permessi premio. Io non credo che si siano pentiti e mi auguro che dopo questo permesso la cosa finisca lì», ha tagliato corto Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime, vedova di Primo, ucciso da Roberto e Fabio Savi il 6 ottobre 1990 perché stava annotando la loro targa dopo una rapina. Piena di rabbia e tristezza è anche Anna Maria Stefanini, mamma di Otello, carabiniere ucciso dai killer insieme ai colleghi Mauro Mitilini e Andrea Moneta il 4 gennaio 1991 nella Strage del Pilastro a Bologna. «Mi auguro - ha detto - che il giudice di sorveglianza abbia figli e capisca cosa hanno fatto queste persone alle famiglie che avevano dei figli: glieli hanno tolti, il mio aveva 22 anni e mi rimane solo una tomba dove portare i fiori e andare a piangere, e non ho più lacrime da piangere». Non meritano, per lei, «nessun beneficio, nessun diritto: devono gettare la chiave. Hanno tolto la vita alle persone e la loro la devono passare in carcere fino alla fine. Che muoiano là dentro. In Italia la legge è una vergogna».
Ma i tempi per i benefici stanno maturando. L’altro ergastolano della banda, Marino Occhipinti, è in semilibertà dal 2012. Alberto, il primo dei Savi ad uscire seppur per mezza giornata, da tempo si dice pentito: 11 anni fa inviò una lettera, per tramite della curia di Bologna, proprio alla mamma di Stefanini, invocando perdono. Richiesta rispedita al mittente anche in seguito, nel 2010, così come oggi: «Sono cristiana, ma non li perdonerò mai», ha detto. Negli scorsi mesi Savi ha scritto con il medesimo intento anche a monsignor Matteo Zuppi, da poco più di un anno arcivescovo di Bologna. Zuppi, a margine di un convegno, non ha voluto rispondere a domande sull’argomento. «Non credo proprio che il vescovo abbia il potere di influenzare la giustizia», ha detto Zecchi. Secondo il difensore di Savi, l’avvocato Annamaria Marin, è «un piccolo pezzo di un mosaico». Il percorso di «revisione critica» del suo assistito è cominciato 17 anni fa e di questo hanno tenuto conto i giudici. In questo percorso ci sono «la sua condotta, il riconoscimento delle proprie responsabilità e il rispetto per le vittime: è stata fatta una valutazione di lunghissimo periodo». Il legale ha poi voluto sottolineare la riservatezza che ha circondato il beneficio. Durante le 12 ore Savi è stato in una struttura accompagnato solo dai volontari e non ha potuto incontrare i propri familiari: «Un particolare tipo di permesso voluto nel rispetto comprensibile del dolore, evitando qualsiasi clamore e visibilità». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino