Alessandro Borghese: «Sushi? Meglio pasta e patate. Capisco la globalizzazione ma salviamo i nostri sapori»

Lo chef stellato: «Da bambino volevo fare il pilota, poi ho scoperto sulle navi da crociera la cucina e il lavoro di squadra»

Alessandro Borghese
La prima volta che la Nazionale mancò la qualificazione ai Mondiali, autunno 2017, una ricerca della De Agostini certificò una rivoluzione tra i sogni dei bambini....

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La prima volta che la Nazionale mancò la qualificazione ai Mondiali, autunno 2017, una ricerca della De Agostini certificò una rivoluzione tra i sogni dei bambini. Al primo posto non veniva più il mestiere del calciatore. Volevano fare gli chef. Avevano nuove figurine da collezionare e da imitare. Alessandro Borghese è tra i protagonisti di questo nuovo corso, uno di quel volti - come direbbe lui stesso nel programma di Sky Quattro Ristoranti - che possono ribaltare la situazione. Con i giovani e con i giovanissimi, anche in Kitchen Sound, Borghese ci lavora. «Mi fermano tutti i giorni - dice - bambini dai 7 anni in su. Credo che l’attrazione per la cucina nasca dalla manualità: la puoi vedere, la puoi toccare, è alla portata di tutti, vicina, raggiungibile. Ma, come per il calciatore, è una vita di sacrifici. Non esistono sabato e domenica, Capodanno e Ferragosto, ai fuochi d’estate fa caldo, c’è tanta fatica fisica, ti giochi tutto in 90 minuti a tavola. Ora che ci penso, bisognerebbe adeguare gli stipendi degli chef a quelli dei calciatori». 



Quanto tempo occorre per una buona formazione da chef stellato? 
«Io non dividerei gli chef tra stellati o no, casomai - come diceva Paul Bocuse - dividerei la cucina buona da quella cattiva. Anni, ci vogliono anni. La verità è che non si finisce mai di imparare, a qualsiasi età incontri qualcuno che t’insegna qualcosa. Uno chef è una persona perennemente alla ricerca. Come accade a ogni creativo, ci sono dei momenti in cui s’attraversa uno stato di grazia, ma la fantasia si nutre con l’impegno quotidiano, con la costanza. L’ispirazione non è una magia calata dall’alto». 

Che lavoro pensava di fare da bambino?
«Ho sognato a lungo di fare il pilota, seguendo la tradizione di famiglia. Sono nato in mezzo alle miscele. Tra la Riviera di Chiaia e piazza dei Martiri, nonno Vincenzo aveva l’officina Autoricambi Borghese e una scuderia sua. Non l’ho conosciuto. È morto da giovane durante una gara a Posillipo. Papà ha corso per tanti anni su Suzuki, Harley Davidson, Honda, Yamaha. È stato fra i primi a provare le gomme slick. Mi ha messo lui su una macchina, ho imparato a usare la frizione da bambino, ho fatto motocross, modificavo il Ciao. Ho vissuto in corsia di sorpasso, ecco. Con l’adrenalina. Anche uno chef è egocentrico, assolutista, ma come un pilota deve imparare a lavorare in brigata, in un team. Deve imparare ad affidarsi». 

Quand’è che ha deviato verso la nuova strada?
«Verso i 17 anni, quando mi sono imbarcato sulle navi da crociera e ho fatto la gavetta nelle cucine: New York, San Francisco, Copenhagen. Ma in nessun posto al mondo si mangia come in Italia. Ai giovani raccomando sempre di viaggiare, conoscere le abitudini più diverse nei posti più disparati, imparare come si lavora in gruppo. All’estero in questo sono più bravi di noi. Un americano da solo fa fatica, tre americani insieme mandano uno shuttle sulla Luna. Noi siamo più degli one man band. Dopo - dico ai ragazzi - solo dopo aver fatto tutti i vostri bei viaggi, rientrate in Italia, dove esiste un patrimonio gastronomico unico, vastissimo, regionale». 

È per questo che i suoi programmi valorizzano i sapori dei territori?
«Io giro l’Italia intera, tocco i posti più piccoli. Chiediamoci perché esista una proliferazione di sushi e non di tortellini emiliani, di gricia, di fritto piemontese. Capisco la globalizzazione, ma il rischio è veder cadere nell’oblio la nostra cultura fatta di sartù di riso, tortani e carbonare. I giovani cuochi fanno gli scienziati. Poi se gli chiedi di preparare lasagna e parmigiana, scopri che si perdono». 

Qual era il piatto di casa Borghese?
«Zio Tonino, fratello di papà, in via Petrarca preparava la più fenomenale pasta e patate che si sia mai mangiata sulla faccia della Terra. Fa parte del mio bagaglio. È una liturgia: dalla scelta della pasta mischiata alla patata da tagliare a cubetti, il fondo da preparare con doppio concentrato di pomodoro, più sedano che carote, il provolone semistagionato, il pecorino, il parmigiano, il basilico, e poi è decisivo il tempo in cui deve riposare». 

Un piatto classico come si rivisita?
«Il medico rivisita, non uno chef. Quando una ricetta cambia, diventa un altro piatto. È lecito preparare la carbonara di mare, ma allora la chiamiamo in un’altra maniera. Guardi, facciamo così: mi dica quanti piatti nati negli ultimi anni dalla tv gastrononica sono diventati iconici». 

Secondo lei?
«Glielo dico subito: non ce ne sono. Nemmeno uno. E mi ci metto di mezzo anch’io, che di questa tv sono stato un precursore. Ancora oggi, quando siedi a tavola, mangi i piatti messi a punto nei decenni scorsi, i piatti che appartenevano al palato comune delle nostre nonne. Intendiamoci, io sono per l’innovazione. Per restare al nostro paragone di partenza, penso che gli chef abbiano lo stesso ruolo delle scuderie in Formula 1. Fanno laboratorio, sperimentano, portano le loro novità nell’uso comune. Gli gnocchi e il ragù si possono preparare in molti modi. Anche la pizza si può mangiare con l’ananas. Quando vado in America, la mangio pure con peperoni. In Florida sì, mi diverte. Ma da noi fa ridere». 

Secondo lei è più complicato essere figli di Alessandro Borghese, oppure essere stato come lei figlio di Barbara Bouchet? 
«Non c’è confronto. Io ero il figlio di una donna bellissima, che negli anni 70 e negli anni 80 dominava la scena dei B-movie. Un’attrice che è stata sulla copertina di Playboy, di Penthouse, che girava commedie divertenti tipiche di quegli anni, con un nudo artistico. Da figlio maschio, tutto questo è stato impegnativo. Molto più impegnativo che essere figlie femmine di un protagonista della tv gastronomica. A 14 anni avevo per compagni di classe dei ragazzetti con l’ormone a palla che mi portavano il centro pagina di Playboy con le foto di mia madre. Come potevo reagire? Menavo le mani. Sono stato espulso da scuola». 

A casa ne parlavate?
«Mia madre e mio padre sono stati esemplari nella gestione di quest’aspetto. Sono stati molto intelligenti, c’è sempre stato grande dialogo, mi hanno spiegato subito bene i termini della questione, mi hanno dato tutti gli strumenti per replicare verbalmente. Solo che dai e dai, per un adolescente diventava impegnativo». 

Cosa leggevano in casa sua?
«I miei non erano grandi lettori, forse qualche giallo. Mio padre non parlava l’inglese, io ho fatto la scuola internazionale, e perciò subito Mary Shelley, Shakespeare, Beckett. Essendo nato a San Francisco, c’è stato il periodo in cui mi sono sentito attratto dalla scoperta della beat generation. Le mie letture non si sono incrociate subito con le loro, più ludiche, finché non gli sono andato incontro. Ho iniziato a studiare tutta la cucina di Bocuse, i vecchi testi della cucina napoletana».

Il suo ristorante a Milano si chiama “Il lusso della semplicità”. Marzullo le chiederebbe se il lusso è semplicità o se la semplicità è un lusso. 
«Gli direi che la semplicità non deve essere un lusso. Il vero lusso è potersi permettere le cose semplici tutti i giorni, nella quotidianità, con frequenza. Una volta posso anche fare l’esperienza della degustazione da un menù di mille portate - alcuni si sorprenderanno, altri no - ma una pasta al forno con la crosticina sopra, fatta bene, non la batte nessuno». 

Da ex bambino che desiderava fare il pilota, la velocità in cucina serve?


«Mio padre diceva: il ragù adda pensà. Non gli devi mettere fretta». 
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Il Mattino