Gli sbirri delle sbarre e la memoria perduta dell'ultimo muro

Gli sbirri delle sbarre e la memoria perduta dell'ultimo muro
«All in all, it's just another brick in the wall - Alla fine è solo un altro mattone nel muro» (Pink Floyd, Another Brick in the Wall). ...

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«All in all, it's just another brick in the wall - Alla fine è solo un altro mattone nel muro» (Pink Floyd, Another Brick in the Wall).

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L'ultimo Muro di Napoli si estendeva per 20 chilometri e correva per colline e valloni, cupe e granili, casali e paludi. Abbracciava l'intera città, da Capodichino a Posillipo, da San Rocco alla Maddalena, dal Vomero a Mergellina. Era un'opera d'arte, a suo modo, e portava la firma dell'architetto che aveva progettato l'Osservatorio astronomico di Capodimonte e Palazzo San Giacomo, ovvero il Real Edificio dei ministeri borbonici.

L'ultimo Muro di Napoli è stato spazzato via: dissolto, sbriciolato, svanito nel nulla. Qualcosa è rimasto, ma poco. La città lo ha rimosso, riservandogli la stessa sorte - l'oblio - toccata ad altri luoghi della memoria.

L'ultimo Muro di Napoli si chiamava muro finanziere ed era un'imponente struttura doganale edificata - ai primi dell'Ottocento - allo scopo di arginare la diffusione del contrabbando, scoraggiando i traffici clandestini. Impresa disperata, come impararono, a loro spese, i pur previdenti e lungimiranti sovrani di Casa Borbone. Ne è rimasta traccia nei labirinti della toponomastica, nelle mura sbrecciate che costeggiano molte strade della città, per lo più in corrispondenza dei punti di dogana, ovvero i posti di muro ove esigere il dazio: ben dodici, disseminati in vari luoghi della città.

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Con la sconfitta di Murat, e la fine del Decennio Francese, il redivivo Ferdinando IV di Borbone, proclamato a Ferdinando I delle Due Sicilie, si trovò a fronteggiare una drammatica situazione economica che lo spinse ad adottare una rigida politica protezionistica. In realtà, distratto dai suoi passatempi preferiti - la caccia, la pesca e la sua nuova moglie, la duchessa di Floridia - Ferdinando preferì affidare le chiavi dell'economia al potente ministro delle finanze, Luigi de' Medici. Lo sviluppo dell'economia europea rischiava di soffocare la capitale del Regno, del tutto incapace - a causa della fragilità delle sue strutture economiche - di sostenere il regime di concorrenza e i contraccolpi del libero scambio. Fu in questo scenario, aggravato da una serie di carestie come quella del 1817, che prese forma l'idea del «muro finanziere». Un progetto ambizioso, un'autentica muraglia difensiva sul modello delle antiche fortificazioni (greca, romana, angioina, aragonese e vicereale) la cui realizzazione fu affidata all'architetto e urbanista Stefano Gasse, di origine francese, considerato con il fratello Luigi uno dei maggiori esponenti dell'architettura neoclassica del primo Ottocento a Napoli.

Tenere alla larga il contrabbando, favorire il commercio marittimo e terrestre. Con questo doppio obiettivo l'opera prese il via, nel 1826, sei anni dopo i moti napoletani del 1820; il muro, che circondava Napoli da nord a sud, da est a ovest, fu costruito in appena 4 anni (per dire: non ne sono bastati 30 per ricostruire Bagnoli). Il disegno del tracciato, recuperato dallo studioso e docente di architettura Alfredo Buccaro presso la Società Napoletana di Storia Patria, ci restituisce l'immagine di una cinta lunga circa venti chilometri, che inglobava vaste aree fino ad allora esterne alla città, quali Posillipo (in particolare la zona corrispondente alle odierne via Orazio e via Manzoni), Case Puntellate, Vomero, Arenella, Vomero Alto fino allo Scudillo, Capodimonte fino a Miano, Capodichino, Poggioreale e buona parte delle Paludi (oggi Centro Direzionale e zona industriale). Gasse scandì il percorso con diciannove barriere e altrettanti posti di dogana, avendo anche cura di assicurare l'accesso alle strade trasversali e di creare delle controstrade sul margine delle cupe e dei cavoni. Nel progettare il suo muro, l'architetto tenne conto delle trasformazioni del tessuto urbano avvenute durante il decennio francese: la città era cresciuta verso le colline e oltre le colline, con nuovi collegamenti viari come i due stradoni per Capodichino e Capodimonte. Il «muro finanziere» definiva, dunque, i nuovi confini della città. Le barriere doganali erano le nuove porte urbane, non solo posti di guardia e dimore per gli ufficiali ma anche confini tra città e contado. Di più: ai nuovi edifici fu affidato, spiega Buccaro, «il compito di meravigliare, con la loro bellezza, il viaggiatore straniero al suo ingresso in città».

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A noi, navigatori dello spazio e del tempo, non resta che viaggiare con la memoria. Punto di partenza del «muro finanziere» era la piazza di Capodichino, all'epoca il principale ingresso della capitale. Il Dazio di Capodichino aveva una pianta circolare e presentava molte analogie con l'edificio daziario di Parigi, nel Parc Monceau. Ma più in generale la cintura daziaria parigina, con il suo percorso di 24 chilometri, fece da modello a quella napoletana. Con la seconda restaurazione borbonica, intorno alla piccola fabbrica furono sistemati gli otto obelischi in piperno tuttora esistenti. Il Dazio di Capodichino sorge nell'attuale piazza Giuseppe di Vittorio e oggi è sede del comando dei vigili urbani del quartiere. Da lì il muro superava il cavone di Miano e arrivava al vallone di San Rocco passando vicino al bosco di Capodimonte.

Da San Rocco - che allora come oggi si affacciava su una giungla urbana disseminata di grotte e giganti di tufo, le antiche cave - il Muro saliva verso l'attuale zona dei Colli Aminei fino allo Scudillo per arrivare alla zona di Cappella Cangiani da dove riscendeva per l'attuale via Gabriele Jannelli fino all'attuale via E.A Mario. Frammenti del Muro sono tuttora visibili al Vomero: ad Antignano è sopravvissuto il vecchio edificio della dogana con la targa in marmo che avvisava: «Qui si paga per gli regj censali». Il Muro di re Ferdinando proseguiva per la zona delle Case Puntellate, superava piazzetta Santo Stefano e arrivava fino all'attuale via Manzoni attraverso via Torre Cervati, scendendo poi per le zone di Posillipo fino a terminare nei pressi di largo Sermoneta a Mergellina. A est, invece, troviamo la dogana di Poggioreale, che fu collocata da Gasse esattamente di fronte all'ingresso del Camposanto Nuovo, presso l'antica villa aragonese che aveva dato il nome al quartiere.

Numerosi tratti del muro - soprattutto a Miano, dove sorgeva l'officina di Bellaria - sono ancora oggi riconoscibili, nonostante sia stato fatto poco per preservarli dal degrado. Ed è un peccato, perché ripercorrendo il tracciato ci si imbatte in molti spazi verdi sopravvissuti all'avanzata del cemento. In molte zone, come Capodimonte e i Colli Aminei, il recinto ha favorito la nascita di nuovi collegamenti stradali lungo il suo percorso. Lo stesso tracciato di viale Colli Aminei seguì, in parte, l'antico percorso daziario rendendolo tuttavia irriconoscibile. Non è mai stato tentato un serio recupero del muro, che può invece a pieno titolo candidarsi, come osserva Buccaro, quale nuovo confine del centro storico della città.

È soprattutto il segno urbanistico di quegli anni che è andato perso, distrutto. A differenza del Dazio di Capodichino, numerosi altri punti di dogana e postazioni di guardia del muro finanziere cadono a pezzi e sono uno schiaffo alla nostra memoria urbanistica ed architettonica. Uno di questi è la barriera del Ponte della Maddalena, la prima ad essere ultimata, nel 1829: un luogo della memoria diventato, con i decenni, uno dei simboli della città abbandonata. 

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Il Mattino