Dai paladini ai guappi, quante storie perdute nel cimitero dei pupi

Dai paladini ai guappi, quante storie perdute nel cimitero dei pupi
Chesta è a storia e Rinaldo, o palladino! O cavaliere e Francia, o cchiù potente! Teneva nu cavallo, Vigliantino,...

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Chesta è a storia e Rinaldo, o palladino!
O cavaliere e Francia, o cchiù potente!

Teneva nu cavallo, Vigliantino,
ca se magnava pe' grammegna a gente!
* * *
Prima che il piccone del Risanamento sventrasse le strade della vecchia Napoli - tanto lurida di macerie quanto affollata di memorie - in riva alla Marina si erano affacciati i pupi.

Si era affacciato Orlando, paladino di Carlo Magno, l'eroe Innamorato e Furioso. Si era affacciato Rinaldo, cugino e rivale in amore di Orlando, al quale contendeva la bella Angelica. Si era affacciato Ruggero, innamorato della sorella di Rinaldo, Bradamante, alla quale promise di convertirsi al Cristianesimo e di unirsi a Carlo Magno. E si era affacciata tutta la compagnia dei pupi, con le loro corazze, i loro mantelli, le loro inconfondibili voci destinate a conferire pathos alle scene epiche rappresentate, mentre i pupari, che governavano il gioco, pur essendo spesso analfabeti conoscevano a memoria la

Chanson de Roland, la Gerusalemme liberata e l'Orlando furioso.

Una vecchia foto, risalente al 1890, ritrae due tra i teatri più antichi di Napoli, Stella Cerere e Masaniello, disposti uno affianco all'altro nei pressi di piazza del Carmine. L'Opera dei Pupi, affermatasi stabilmente nell'Italia meridionale e soprattutto in Sicilia tra la seconda metà dell'800 e la prima metà del '900, si diffuse nei primi decenni dell'800 - e più esattamente nel 1826 - anche a Napoli, grazie a Giuseppina d'Errico chiamata «Donna Peppa». Ma a Napoli, secondo autorevoli studiosi, la tradizione sarebbe ancora più antica, e risalirebbe al diciottesimo secolo.

Il teatrino di Donna Peppa, situato tra la Pescheria e le vecchie case di Porta di Massa, ospitava spettacoli che incantavano aristocratici e plebei. Scrisse di Donna Peppa Salvatore Di Giacomo: «In quel tempo la Errico aveva trentaquattr'anni. Era una piccola bruna; occhi vivi e neri, capelli lievemente crespi, grosse labbra tumide e accese; di mani pronta come di parole». Un ritratto a olio di Giuseppina d'Errico è conservato presso la sezione teatrale del Museo di San Martino. Salvatore Petito, suo marito, era un celebre Pulcinella: dall'incontro tra don Salvatore e donna Peppa non poteva che nascere un genio. E infatti, nel 1822, nacque Antonio Petito, mitico Pulcinella a sua volta e tra le figure più importanti del teatro napoletano dell'Ottocento.
* * *
Storia di cavalieri, di paladini e maghi, di ottomani infedeli, bestie e fanciulle in fiore. E duelli feroci, ma sempre un po' comici. A Napoli i pupi s'innestano nella rappresentazione romanzata delle vicende storiche del periodo borbonico; motivo per cui, accanto a Ornaldo e Rinaldo, compaiono anche figure storiche come Napoleone, Gioacchino Murat e Ferdinando di Borbone. Tra le compagnie spicca quella dei Corelli, il cui capostipite, Nicola, era nato dall'unione tra la figlia di Petito, Adelaide, e l'ufficiale borbonico Fausto Corelli.

Nella seconda metà dell'800 c'è un teatrino dei pupi in ogni quartiere. Sulla strada del Molo era attivo il Teatro Sebeto, mentre Ciro Perna, allievo di don Giovannino De Simone, aprì la sua prima opera dei pupi al Vasto, nei pressi di Porta Capuana. I Buonandi - Domenico, Salvatore e Giuseppe - gestirono un teatro che aveva sede a porta San Gennaro, via Foria, che si chiamò Ercole e poi Piccolo San Carlino. La richiesta da parte del pubblico era tale da indurre gli stessi pupari a scrivere e mettere in scena storie sempre diverse; si pescò così in altri poemi della letteratura, come I Reali di Francia di Andrea da Barberino, il Guerrin Meschino, il Buovo d'Antona, o più recenti come I Tre Moschettieri di Alexandre Dumas.

Verso la fine dell'800, i napoletani decisero che non ne potevano più del magico mondo dei Paladini di Francia e del gran duello di Orlando e Rinaldo per amore della bella Angelica. Così i pupari cambiarono genere. Svestirono i loro fantocci dalle pesanti armature e li rivestirono con abiti contemporanei. I guerrieri dell'Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata vennero sostituiti con gli uomini e le donne della camorra di fine 800. I pupi diventarono guappi, sciantose, povera gente. E poiché gli spettatori volevano sangue e violenza, i pupari si concentrarono sulle storie di malavita. Così, a furor di popolo, il «re» della Pignasecca, Tore e Crescienzo, diventò un burattino. Tore e Crescienzo era Salvatore de Crescenzo, personaggio storico realmente esistito, mammasantissima per oltre trenta anni della Bella Società Riformata, incaricato da Garibaldi, alla vigilia della sua entrata in Napoli, di formare una guardia cittadina, per assicurare l'ordine. Diventò il Robin Hood dei pupi, lui che sfamava il popolo con il pizzo preteso dai commercianti avidi e ricchi.

Poi, l'oblio. A soppiantare il vecchio teatro dei pupi furono il cinema e la malizia dei tempi. «Palermo - osserva Pietro Gargano, giornalista, scrittore e custode di tante memorie della città - è stata di certo più brava di Napoli, che le sue guarrettelle le ha lasciate scrostare, sbiadire».
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In un teatrino di pupi, a porta San Gennaro, Raffaele Viviani debuttò sulla scena all'età di quattro anni e mezzo, indossando il frac di una marionetta per sostituire Gennaro Trengi, tenore e comico, che si era (opportunamente) ammalato. E in un tempietto dei pupi, all'imbocco di Port'Alba, accompagnava al pianoforte ogni mossa dei cavalieri di legno uno studente di conservatorio di straordinario valore: si chiamava Renato Carosone. La grande tradizione partenopea dei pupi ebbe termine nel 1958, quando chiuse i battenti il Piccolo San Carlino di via Foria.

Frammenti di un mondo perduto. Chi custodisce, oggi, la memoria dei pupi? Negli ambienti restaurati di Santa Maria la Nova, esiste - ma è ancora chiuso al pubblico - un Museo dei Pupi e del Teatro di figura campano e meridionale. Nato da un progetto di Alberto Baldi, docente di antropologia culturale della Federico II, l'allestimento può contare su un patrimonio di circa centoventi pupi e centinaia di costumi appartenenti alla storica famiglia Perna, una raccolta di quadri, scenari e, soprattutto, un autentico tesoro di ben settantamila pagine manoscritte con copioni di autori del teatro napoletano dei pupi, tra i quali spiccano quelli dei due più significativi autori novecenteschi, Giuseppe Abbruzzese e Ciro Verbale. E poi cento copioni teatrali per un totale di millecinquecento fascicoli, diverse centinaia di pupi, marionette, burattini, animali e creature fantastiche, alcune centinaia di cartelloni con cui i pupari illustravano al pubblico l'episodio della sera successiva; e ancora tanto materiale di scena tra cui costumi, cappelli, armature, teste, fondali, sipari.

Il museo di Santa Maria la Nova si propone dunque come elemento centrale di un'operazione di recupero della memoria storica. L'obiettivo è quello di far rivivere la grande arte dei Corelli, dei Furiati, dei Di Giovanni e del grande Ciro Perna, frattese, considerato l'ultimo puparo. Ovvero di recuperare, ricostruire e celebrare la plurisecolare tradizione dei pupi napoletani.


L'apertura del museo, più volte annunciata, ha subito numerosi rinvii nel corso degli anni. Per renderlo fruibile, come spiega Elena Coccia, consigliera delegata al patrimonio culturale della Città Metropolitana, occorre ultimare i lavori per l'illuminazione, l'impianti antincendio e la messa in sicurezza di due scale. Occorrono 400mila euro, solo una parte del milione e 200mila euro destinati al chiostro di santa Maria la Nova nell'ambito del grande progetto Centro Storico di Napoli. I pupi, oggi sistemati in un locale sotterraneo del complesso monumentale, chiedono che sia restituita loro la voce. Abbandonarli al degrado e all'oblio sarebbe un delitto gravissimo. Facciamo in modo che il Museo di Santa Maria la Nova non diventi il loro cimitero. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino