Diciannove lunghi anni di battaglie giudiziarie per dimostrare la sua fedeltà alla divisa e la sua estraneità al clan che faceva capo a Massimiliano Placanico....
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In servizio a Torre Annunziata, Arpino era stato accusato da due pentiti di essere organico ai Placanico, ai quali avrebbe anche fornito la droga portandola da Torre Annunziata a Salerno. In realtà il suo nome era venuto fuori già in fase investigativa in virtù di un vecchio rapporto di amicizia, nato quando sia lui che Placanico erano soltanto dei ragazzini. E anche il finanziere fu messo sotto intercettazione. Già in fase di udienza preliminare il gip di Salerno aveva ritenuto insussistenti i gravi indizi di colpevolezza contestati ad Arpino ritenendo che «non si rinvengono agli atti elementi per poter dare ad Arpino una veste nell’associazione» e, per rispondere alle accuse dell’Antimafia, aveva scritto che la «pg desume» che Arpino procuri clienti al clan sottolineando come, nelle intercettazioni telefoniche, «non si parla di droga ne direttamente, ne indirettamente». Di qui l’assoluzione per non aver commesso il fatto di Arpino in primo grado.
La vicenda però si è complicata durante il processo di Appello. Dopo quindici anni di silenzio, Dario Iannone, altro esponente di spicco della malavita organizzata salernitana, decide di collaborare con la giustizia accusando nuovamente Arpino e dichiarando di aver saputo della sua collaborazione con il clan direttamente da Placanico. Accuse che, in parte, aveva fatto anche un altro collaboratore, Andrea Cuomo, e di cui Iannone era a consocenza. «Il mio assistito è stato poi condannato - scrive Lentini nel ricorso in Cassazione - senza che fossero sentiti anche i testi a discarico o una comparazione tra le dichiarazioni dei due pentiti». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino