Mentre Francesco De Gregori ritorna ai tempi del Folkstudio (ovvero dal 1969), esibendosi per venti sere in un teatrino della Garbatella da duecento posti, Antonello Venditti...
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Ci sono tanti anniversari da celebrare, Antonello: iniziamo da «Sotto il segno dei pesci»?
«Era il mio ottavo disco, compivo 29 anni, otto - numero che torna - giorni dopo rapivano Moro. In quel momento io mettevo brandelli di carne viva su quel pezzo di vinile nero che oggi fa trend ma allora era un indispensabile compagno di vita, e di lotta, e di passione».
Un disco collettivo, almeno nel brano iniziale, che dà il titolo al disco: «Marina se n'è andata, oggi insegna in una scuola», «Giovanni è un ingegnere che lavora in una radio»...
«Erano tutte persone in carne e ossa, storie vere, un ponte dal 68 agli anni del riflusso. C'era già chi mi dava del venduto, io provavo a riflettere su che cosa mi/ci stava succedendo intorno».
Poi il disco diventa on the road, con «Bomba o non bomba».
«Se si pensa alla coincidenza con il dramma Moro un pezzo straordinariamente preveggente, ma, soprattutto, la cronaca di un destino ineluttabile».
Quello tuo e di De Gregori: «Partirono in due, ed erano abbastanza... un pianoforte, una chitarra e molta fantasia».
«Proprio così: Roma, la meta finale, eppure punto di partenza, è il simbolo del successo da raggiungere, raggiunto: E finalmente ci fecero suonare. Non potevano fermarci, ci scoppiava la vita, e la canzone, tra le dita, e le nostre canzoni sfuggivano da noi per diventare della generazione che ci ascoltava».
Al principe dedichi addirittura «Scusa Francesco».
«Nell'Italia degli opposti estremismi anche noi dovevamo diventare nemici, banali divergenze dovevano separarci per sempre. Ma non è successo, nonostante leggende metropolitane volessero, e vogliano ancora, che avesse scritto Piano bar per me, cosa falsa. Siamo amici, ci frequentiamo, dividiamo cene e chiacchiere, quando lo chiamo viene, quando mi chiama corro».
Nel disco ci sono due figure femminili importanti, «Sara» e «Giulia» che ti costarono polemiche con il movimento femminista.
«La prima sembrò un inno contro l'aborto, invece era una canzone sull'autodeterminazione della donna: Sara non si è mai sposata ma ha avuto tre figli. La seconda era persino più scomoda, non mi era mai successo di avere come rivale in amore non un uomo, ma una donna: i tempi stavano cambiando, per dirla con Dylan, ma noi non eravamo ancora pronti. E nemmeno le donne: in quella tenzone sessuale, Giulia era molto più maschilista di me».
C'è almeno un'altra canzone importante, «Chen il cinese».
«Un'altra canzone di droga, dopo una vittima come Lilly, stavolta c'era il sogno di uno spacciatore speciale di erba e sogni, sogni però destinati ad essere spacciati via. Oggi che è tornata anche l'eroina, senza però appigli ideologici o letterari insomma romantici, mi sembrano versi persino più drammatici di quell'era in cui persino la mia band fu falcidiata dalla roba».
Com'è il concerto?
«Bello, ma non dovrei dirlo io, lungo, tosto. Con gli Strada Aperta, la band dell'epoca, faccio tutto Sotto il segno dei pesci, poi c'è tutto il resto del repertorio».
Ormai ci siamo: a 70 anni sogni ancora un altro mondo possibile? E un'altra canzone possibile?
«Quella c'è, bisogna solo metterla insieme. Pensa alle tante scuole romane, oggi c'è Ultimo, mai diventate movimento. La politica è un'altra storia, tramontata l'appartenenza, resta il nostro essere geneticamente di sinistra, e la convinzione che valga la pena scegliere in chiave collettiva, solidaristica, egualitaria, non egoistica. Non parlo delle primarie del Pd, di questo o di quel candidato, ma di qualcosa che forse oggi non c'è, che mi fece scrivere Dolce Enrico pensando a Berlinguer».
Come festeggi?
«L'8, e il 9 marzo sono al Palalottomatica romano. Poi arrivo a Napoli: la festa continua».
Hai invitato amici per il Palapartenope?
«No, ma quelli veri sono sempre benvenuti, come Enzo Avitabile: anzi lo invito da queste pagine, lo aspetto». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino