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È una lezione di hip hop, quella che Afrika Bambaataa pronuncia in diretta davanti alle telecamere del sito de «Il Mattino»: «Il rap esiste da sempre. Il basso di James Brown forniva i campioni, i Last Poets i tamburi e i versi, ma il rap c'era prima di loro, nella musica nera, nei canti degli schiavi con chiamata e risposta, persino in certa country music. Parlare tenendo il beat, scandire il ritmo con le parole non era una novità. Ma Kool Herc, Grandmaster Flash e io siamo passati alla storia come gli architetti dell'hip hop perché abbiamo unito tutto questo al funky, all'arte del djing, della break dance, dei graffiti. Non solo un sound, ma una cultura, anzi una sottocultura metropolitana», spiega.
Enzo Avitabile sorride al fianco di Lance Taylor, sessantacinquenne leggenda della musica nera che ritrova dopo molto tempo: «Street happiness», il pezzo inciso insieme con lui, è del 1989. «Bam veniva da incontri con James Brown, allora come adesso tra i miei maestri dichiarati, con John Lydon, con gli UB 40. Provammo a incrociare groove e tammorre, culture diverse, ma comunque figlie del ghetto. Lo portai a Scampia, girammo un video: non vorrei essere presuntuoso, ma molto cominciò così, i ragazzi compresero che si poteva fare rap nelle nostre periferie, usare la nostra lingua, parlare dei nostri problemi. Mi piace pensare che c'è un filo rosso e mai interrotto che da quell'inno pacifista porta ai Co'Sang, a Geolier».
Bam non vuole parlare delle accuse di violenza e pedofilia che lo tormentano da qualche anno, preferisce ricordare la stagione della Zulu Nation: «Mi rivolgevo a fratelli e sorelle delle gang, invitandoli alla positività invece che alla negatività, a riprendersi spazi e diritti, ma senza pagare l'atroce prezzo della legge della strada.
Bam e Avitabile si riconoscono «soul brothers», senza problemi di pelle: «Il razzismo è l'apoteosi della stupidità», dice l'omone del Bronx, ieri sera in pista al Riva Club per festeggiare i primi dieci anni di Musicology. «Siamo in miliardi sul pianeta terra, di tutte le razze, le religioni, le ideologie. Non esiste la nazione bianca, nera, gialla o rossa. I miei avi erano schiavi, magari anche i vostri: Roma aveva ridotto in schiavitù tantissimi popoli. Con Avitabile, con Tullio De Piscopo, con Jovanotti ricordo dei giorni bellissimi in Italia in quella fine anni Ottanta. Era questione di feeling, non certo di colore dell'epidermide».
I due vecchi amici si ritrovano con piacere, si riannusano, accennano al ritornello di «Street happiness», non l'hanno dimenticato e la loro richiesta è, purtroppo, attualissima: «Magari lo ritiriamo fuori quel pezzo», chissà, butta giù Enzo, e sembra che stia già progettando qualcosa. «Mi piacerebbe rivedere Napoli con calma, so che è diventata un centro di produzione importante per il nuovo rap», rilancia Afrika Bambaataa: «In America la nuova scena si divide tra chi pensa solo ai soldi e ai social e chi ha a cuore il messaggio, magari ha voglia di fare qualcosa con me o con gli altri protagonisti di stagione passate come gloriose. Fuori dal ghetto il rap è diventato moda. In fondo, proprio come cantavo con sua maestà James Brown, quello di cui abbiamo bisogno è sempre e soltanto Unity, unità», conclude abbracciando Avitabile.
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