In fondo, il derby non è mai finito, anche se ormai appassiona più combattenti e reduci che giovani combattenti di strada. Succede che cinquant'anni fa, nel...
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Il derby infinito riparte da dove l'avevamo lasciato, all'epoca gli Scarafaggi si avviavano alla fine e gli Stones alla fine di Brian Jones. I baronetti venivano dalla cosmogonia del Sergente Pepper e si concedevano varietà di stili, direzioni, filosofie. Gli Stones focalizzavano il sound sull'America di Dylan, e di The Band si intende, oltre che sulle radici di Chuck Berry, Bob Duddley e Howlin' Wolf. I testi guardavano alle rivolte nell'aria e al diavolo che era in loro e in noi.
L'album bianco divide i talenti, non li tiene insieme, non li moltiplica l'uno per l'altro come era successo finora. Ci sono i brani di McCartney, quelli di Lennon, c'è il saggio George Harrison di «While my guitar gently weeps» («Da ogni errore noi sicuramente impariamo qualcosa») impreziosita dalla chitarra di Clapton e il meno memorabile Ringo Starr di «Don't pass me by». Anarchici senza saperlo, i divi di Liverpool sono reduci dalla meditazione trascendentale con il Maharishi e alternano suoni, visioni e distorsioni («Helter skelter», poi condannata a atroce fama dalla strage di Bel Air). Ballate, rock'n'roll («Back in the Ussr», incita l'incipit) e vaudeville. «Ob-la-di ob-la-da» anticipa il reggae bianco, «Long long long» cita sua Bobbità e «Sad eyed lady of the lowlands», «Happines is a warm gun» scartavetra l'America militarista per cui «La felicità è un fucile caldo in mano», ma anche «Blackbird» merita il ricordo in un disco doppio che George Martin avrebbe voluto saggiamente più breve.
L'album del banchetto dei mendicanti guarda al Bunuel di «Viridiana» nel titolo e ai tempi che stanno cambiando nella sostanza, apre una quadrilogia di capolavori, destinata a continuare con «Let it bleed», «Sticky fingers» e «Exile on main st». La band torna al rock e al blues, secco, senza fronzoli, veste di elettricità e riottosità giovanile grandi canzoni, allontandosi dall'atmosfera del precedente «Their satanic majesties request», non fosse per quell'incipit di «Symphaty for the devil»: «Mi ero stancato di quella merda del Maharishi, delle perline e dei campanelli», spiega Keith Richards quasi a sottolineare quanto le due band gemelle e rivali fossero ormai lontanissime l'una dall'altra. La simpatia per il diavolo è suggerita da Bulgakov (Il maestro e Margherita) ma viene presa per un'ode diabolica in sintonia con l'inno rivoltoso di «Street fighting man» che sogna la rivoluzione («Sembra proprio arrivato il momento di combattere nelle strade») ma poi torna con i piedi per terra («Ma che cosa può fare un povero ragazzo / se non cantare in una band di rock'n'roll?»). «No expectations» e «Dear doctor» sono ballate country, strepitose e parodistiche, «Jigsaw puzzle» il tributo dylaniato al maestro Dylan. Mick Jagger è il canto più lascivo dell'era, i riff di Richards sono assassini, Charlie Watts si concentra su una batteria giocattolo, Bill Wyman sul suo basso e le maracas, Brian Jones su sitar e mellotron e si lascia mettere in un angolo anticipando l'addio.
«The White album» nasce come un classico pop, fuori dal tempo. «Beggars banquet» è il suono del suo tempo. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino