Robert Plant, ritorno al futuro

Robert Plant
Visto che il rock è storia di reduci più che di combattenti, uno come Robert Plant sorprende ancora perché, se non altro, ha preferito vivere guardando...

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Visto che il rock è storia di reduci più che di combattenti, uno come Robert Plant sorprende ancora perché, se non altro, ha preferito vivere guardando avanti, invece che indietro, come conferma anche «Carry fire», suo undicesimo album solista e successore di «Lullaby and... the ceaseless roar» del 2014. Come in quel disco, come lo vedemmo a Napoli all’Arena Flegrea, l’ex voce dei Led Zeppelin si bea della compagnia dei Sensational Space Shifters (Justin Adams e Liam «Skin» Tyson alle chitarre, John Baggott alle tastiere e Billy Fuller al basso) utilizzati anche per un tripudio di strumenti rubati a diverse tradizioni, dal bendir al dobro.

Un’ugola che confessa di aver vissuto ma cerca linfa per vivere ancora tra suoni che sono celtici, indiani, africani, americani. Una voce che, in studio più che dal vivo, ha nuances della maturità che giustificano le meno vertiginose ascese verso gli acuti scalinata per il paradiso che non c’è. Certo, poi ci sono sempre i nostalgici, quelli che gli impongono di voltarsi ogni tanto indietro. Ecco, per loro c’è «May Queen» con i suoi riferimenti appunto a «Stairway to heaven», c’è un pezzo più anni Settanta come «Season’s song». Ma ai passatisti non basta e così, il sessantanovenne leone inglese spiega ancora una volta: «Non sono io che ho detto di no alla reunion dei Led Zep, è che non funziona. Servirebbe Bonzo», spiega parlando di John Henry Bonham, mitico batterista della band. «Decidemmo così nel 1980 quando lui è morto: non potrà mai più essere quello che è stato. Ne abbiamo discusso, ma... devi vivere per quello che sei, non per quello che sei stato».

E quello che lui è oggi è questo canto libero e indefinibile, antico eppure contemporaneo nella sua voglia di libero scambio sonico, capace di spruzzare di Bristol sound «Bluebirds over the mountain», rockabilly anni Cinquanta in cui incontra Chrissie Hynde, un’altra che sa invecchiare bene: «Lei, i Pretenders, io... tutti noi, siamo in giro da un sacco di tempo. Non ci conoscevamo bene, ma le ho mandato la registrazione senza la sua parte e lei me l’ha rimandata indietro completa, anzi... perfetta». Già inciso da Richie Valens come dai Beach Boys il pezzo ha un profumo buono: c’è nell’aria qualcosa di nuovo, anzi di antico. Il violoncello dell’albanese Redi Hasa e la viola e il violino di Seth Lakeman completano la gamma sonora messa in campo, con una piacevolezza desueta Leggi l'articolo completo su
Il Mattino