Cocciante a Carditello: «La musica è una passione, non si va mai in pensione»

Cocciante a Carditello: «La musica è una passione, non si va mai in pensione»
Il cortile di Carditello apre le porte un'ultima volta per questa estate, alle 21, per il recupero di «Cocciante canta Cocciante», concerto originariamente...

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Il cortile di Carditello apre le porte un'ultima volta per questa estate, alle 21, per il recupero di «Cocciante canta Cocciante», concerto originariamente annunciato nel teatro grande di Pompei. Il cantautore sarà accompagnato dall'orchestra sinfonica Saverio Mercadante di Altamura, diretta da Leonardo de Amicis, 32 elementi più Alfredo Golino alla batteria, Roberto Gallinelli al basso, Ruggero Brunetti ed Elvezio Fortunato alle chitarre, Luciano Zanoni alle tastiere e i computer. Questo tour, Riccardo, celebra i suoi 50 anni dall'esordio con l'lp progressive «Mu», del 72, anche se in realtà aveva già debuttato su vinile nel 1968 come

Riccardo Conti e nel 71 come Richard Cocciante. Era parecchio che non si regalava un giro di concerti così lungo. A 76 anni non c'è la voglia di farla finita almeno con il palco?
«Io non mi fermo, mi può fermare solo la vita, ovvero la morte. Che siano concerti, canzoni, dischi, opere... Fare l'artista non è un lavoro, ma una passione: si va in pensione da un mestiere, non da se stessi».

Urgenze artistiche, progetti?
«Tanti, soprattutto cose fermate dalla pandemia: rimettere in scena Romeo e Giulietta, finire la mia Turandot e un discorso iniziato con la Cina, magari riprendere il Piccolo principe in Francia, un disco di inediti per celebrare questo mezzo secolo, e più, di canzoni, che io faccio partire dal disco del 1973, Poesia. E c'è Notre Dame de Paris che continua a girare il mondo, tornando anche a Napoli dal 26 al 30 ottobre al Palapartenope, per ben sette repliche».

Ha scelto cornici particolari per questo tour.
«Non ho mai visto prima Carditello, sono curioso di scoprirla, tutta l'Italia è ricca di spazi da riscoprire, da valorizzare. Io ci arrivo per la prima volta per cantare, qualcuno ci verrà per la prima volta attratto dal mio nome... Dovremmo saper usare il patrimonio culturale».

Dal palco di questi show che Paese, che pubblico ha visto?
«Ho avuto accoglienze calorosissime, ho visto un clima insieme di insicurezza e di liberazione post pandemia. La gente ha voglia di vivere più di prima, ma ha anche paura del futuro, spesso a un vivere all'eccesso corrispondono poi momenti di grande crisi, ma speriamo non sia così».

Ad inizio anni Settanta lei si è trovato a Roma, alla Rca italiana, nel bel mezzo di una rivoluzione, quella cantautorale.
«Il mondo discografico allora era fatto di artigiani, oggi è un'industria. Io ho esordito con Ennio Melis, fu lui a segnare il passo della canzone italiana tra gli anni Sessanta e Settanta, traghettandola in una dimensione più complessa e adulta, che affiancava alla tradizione melodica l'attenzione per il testo, per le parole, figlia della cultura francese».

Anche allora, però, lei, Baglioni, ma in fondo anche De Gregori, Venditti, Gaetano, Zero, volevate il successo.
«Sì, ma volevamo conquistarlo con la nostra diversità, non a prezzo di rinnegare la nostra unicità. La selezione naturale poi è inevitabile, tra cantanti come in natura: vince chi ha proposte originali, sopravvive chi non segue le mode, chi sta ai margini, è atipico... Quando ho osato l'avventura di Notre dame de Paris erano in tanti a dirmi che poteva nuocere alla mia carriera: volevo farlo, dovevo farlo, l'ho fatto, io sono ancora qui e quella mia impresa pure».

Possiamo immaginare una festa al prossimo Sanremo per questo anniversario?
«Non mi hanno invitato, se invitato perché no? Di certo non da concorrente, da ospite servirebbe avere qualcosa di interessante da presentare, vedremo».

In mezzo secolo di carriera non le è mai venuta voglia di misurarsi con la canzone napoletana, classica o moderna che fosse?
«No, però se analizziamo la musica italiana, la nostra melodia è tutta figlia della canzone napoletana, anche la mia deriva dalla capitale della canzone, da un brillante miscuglio di culture, che a quella locale fondevano quella francese, spagnola, araba, americana. La mescolanza porta creatività, novità. Non ho cantato, né scritto, canzoni napoletane, ma le mie melodie vengono da quella lezione».

Un artista giovane con cui le piacerebbe interfacciarsi, magari collaborare?


«I Maneskin, riprendono una musica che ha più di 50 anni e la rileggono alla loro maniera. Lo fanno perché gli piace. E funziona». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino