Il vento del deserto spazza stasera e domani gli spalti dello stadio Olimpico con l’approdo, un po’ nostalgico, a Roma degli U2 per le sole tappe italiane del...
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Il grande esploratore John Fremont descrisse il Joshua Tree come «“l’albero più ripugnante del regno vegetale» eppure da trent’anni rappresenta per gli U2 la metafora del deserto che è al tempo stesso il simbolo dei grandi spazi e il ritratto del vuoto interiore che abita le coscienze del mondo civilizzato. Se nell’87 il «Joshua Tree tour» partì e finì a Tempe, in Arizona, totalizzando 111 repliche in otto mesi e mezzo, questa edizione 2017 si limita a 33 show in due mesi e mezzo: 21 in Nord America e 12 in Europa per i quali sono stati venduti un milione e centomila biglietti. Questo perché la band non vive di nostalgia (ma casomai di business, come confermato dall’arrivo della versione celebrativa extralusso con 49 tracce che, oltre al disco originale, contiene outtakes, remix e b-sides) e ha già pronto «Songs of experience» completamento blakeano di quel «Songs of innocence» uscito nel 2014. Uscirà ad ottobre, seguito a primavera dall’ennesimo tour, forse di nuovo nei palasport. Questa versione 2017 del «The Joshua Tree tour» ribadisce che se trentacinque anni fa gli U2 non avessero incontrato il fotografo Anton Corbijn e il designer Willie Williams la loro carriera sarebbe stata probabilmente un po’ meno eccitante. Con un surplus tecnologico da far impallidire Hollywood, la coppia catapulta gli U2 ai piedi di un muro alto dieci metri come quello che il «bugiardo» di Washington sta costruendo al confine col Messico; in realtà uno smisurato schermo ondulato che finisce così col perdere la sua poderosa impenetrabilità per riempirsi di volti, d’immagini e sentimenti. Perché, come ricorda «One», l’amore è un tempio, «la più nobile delle leggi».
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Il Mattino