Parola d'ordine: understatement. Che vuoi che sia se gli Ex Otago vanno a Sanremo? La stampa voleva da loro un soffio di indie pop spensierato e giovanilista, con «Solo...
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Già, ma cos'è poi questo suono indie che Maurizio ha portato al successo con il chitarrista-ricercatore di Storia dell'architettura Francesco Bacci, l'altro chitarrista-grafico Simone Bertuccini, il bassista-tastierista architetto Olmo Martellacci e il batterista-barista Rachid Bouchabla? «Boh, noi dal 2002 facciamo musica, a un certo punto hanno deciso di chiamarla così. Al di là delle etichette non siamo un gruppo che dai baretti è passato ai palazzetti, ma senza cambiare, e non cambieremo nemmeno per Sanremo: quel palco non ci fa paura, ma paurissima, cercheremo di viverlo come se fosse quello di un club, godendoci quest'edizione che apre le porte a noi, ai rapper, ai rocker, ai trapper, ai suoni che l'Italia giovane ama, produce, consuma, ascolta». Per essere scelti da Baglioni avevano presentato tre pezzi, uno «molto dance, sul piacere di starsene a casa la sera che, ormai, va di moda: is the new uscire, scriverebbero sul web, e un'altra più elettronica, parlava di bambini. Claudio ha selezionato il brano più intimo e onesto».
Per loro, che sono genovesi doc, Sanremo «era un mito a due passi da casa, un sogno irraggiungibile, un'offesa al suono che escludeva. Ora è diventato Ghemon, è Motta, è Zen Circus, un posto dove possiamo stare anche noi». E, soprattutto, un modo per allargare ancora la propria platea: in pieno Festival gli Otaghi, come si fanno chiamare, faranno uscire il sesto album, «Corochinato» (Garrincha dischi/Inri), «una bevanda che porteremo in sala stampa a tutti i giornalisti italiani. È un aperitivo tipico genovese da più di 100 anni, una miscela di vino bianco, erbe e spezie. È il bicchierino delle persone comuni come noi».
«Corochinato» arriva dopo un disco identitario come «Marassi», dopo il crollo del ponte, dopo il ventennale di De André: «Siamo genovesi doc, ma non aspettatevi un appello per la ricostruzione, quanto un sorriso e un suono che arrivano dalla città che non viene mai mostrata dai mass media. Siamo cresciuti con Faber e la scuola genovese, ma i padri, anche quelli nobili, a un certo punto vanno mandati... a quel paese. Anche perché c'è una giovane scena importante, e non penso solo a Ghali e Tedua. Le ferite della nostra città sono tante, non si sono ancora chiuse quelle del G8 e di piazza Alimonda, e vicino a noi qualcuno vorrebbe costruire muri mentre crollano ponti». Insomma, tra Baglioni e Salvini scelgono il primo: «Genova, per la sua storia, è sempre stata e sempre sarà fonte di diversità». Non a caso loro sono pronti a raccontarsi anche con un docufilm, «Ex Otago - Noi siamo come Genova», prima di inaugurare, il 30 marzo, a Torino, il tour «Cosa fai questa notte?». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino