Una vita da mediani, ma veraci. Al terzo album («e chi credeva di arrivarci!», scherzano-confessano loro), i Foja rilanciano con «'O treno che va», a...
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Il dialetto scelto come suono e identità, la coesione di un gruppo che non ha perso la forza propulsiva degli esordi, la sintonia con l'onda lunga newpolitana che sogna l'assalto al cielo - e al mercato - nazionale, la fantasia autarchica della indie vesuviana Full Heads fanno dei Foja una band pronta ad esplodere. «Sento che qualcosa sta per succedere», conferma il frontman, «ma non è detto che saremo noi a riportare, come ciclicamente avviene, Napoli al centro della scena italiana. Di sicuro noi rivendichiamo la nostra discendenza: in principio venne Carosone, primo americano di Napoli, poi arrivarono gli alfieri del neapolitan power, negli anni 90 toccò a Almamegretta e 99 Posse. Noi abbiamo iniziato quando non era più di moda cantare in napoletano, cosa che ora si porta: corsi e ricorsi, ma bisognerebbe approfittare del momento propizio».
Ecco, allora, i Foja che giocano le loro carte, molto aiutati dal lavoro di Scialdone, il loro Ry Cooder, unendo a storie partenopee suoni che sanno di old rock americano, più Johnny Cash che Pearl Jam, in un crogiuolo di mandolini e riff blues, intarsi folk e armoniche a bocca (quella di Edoardo Bennato in «Gennaro o fetente», storia di un pazzo del quartiere che si sente curatore artistico della «sua» piazzetta), armonie East Coast e chitarre killer (quella di Ghigo Renzulli dei Litfiba in «Aria e mare»), fiati pompati (a cura di Daniele Sepe) e storie nere da Far West gomorresco, speed country e armonie caraibiche, Messico e nuvole, ballate acustiche e ninne nanne (la conclusiva «Duorme»).
Lontani dal proclamarsi portavoci della loro generazione o leva cantautorale (praticamente coinvolto in una maniera o nell'altra l'intero staff di «Capitan Capitone e i Fratelli della costa»), ma anche dal sentirsi narratori delle riserve metronapoletane, i Foja cercano emozioni semplici, dirette, chiedono «A chi appartieni» pensando a una storia d'amore e non di clan, sudano e sperano di far sudare i loro fans. Come un Benetti più che come un Maradona, da mediani, capaci di decidere una partita però, di granitica presenza.
«Cagnasse tutto» è uno slogan armato più di anarchica cazzimma che del grillismo dilagante, «'O treno che va» è una title track che parla di chi sa da dove parte ma non dove deve/vuole andare, convinto che il meglio del viaggio stia nelle sorprese del percorso più che nella meta. «Buongiorno Sofia» è dedicata a una donna che potrebbe essere Napoli, è l'ennesima dedica-maledizione a una città-state of mind a parte. Ogni canzone, allora, più che una fermata è un binario, un annuncio di nuova destinazione. Così, tra profumo di mare e di maccheroni alla genovese spunta Nina che vorrebbe andare via, ma rimane ferma inchiodata dal ricordo, come una cultura che non sa scommettere sul proprio futuro ammaliata e tradita dal suo passato, come una generazione che ha mitizzato i padri putativi senza accorgersi che erano sterili.
Presentazione dal vivo all'Hart domani alle 19 (ingresso libero, ma chi compra il cd, nei negozi dal 9 dicembre, ha la precedenza), poi showcase e tour, aspettando di ascoltare le canzoni della band nel cartoon «Gatta Cenerentola» con Sansone tra i disegnatori e i registi, e poi di vederla anche in «La parrucchiera» di Stefano Incerti. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino