Muore, Ciro Di Marzio, colpito al petto da chi gli era stato amico, complice di delitti spaventosi e fratello. Muore, Ciro l’Immortale, perché non ci sono...
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La terza serie di «Gomorra» finisce così, con un clamoroso colpo di scena che farà impennare gli ascolti di Sky e certo alimenterà di nuovi spunti il dibattito sulla pericolosità subliminale di certi messaggi, sul quoziente di negatività di certi modelli. Ciro Di Marzio muore per mano di Genny Savastano così come don Pietro, il capoclan di Secondigliano, era morto per sua mano, in una catena di delitti che non conosce fine. Ma, è questa la svolta drammaturgica, muore per salvare l'amico e alleato in un inatteso, improvviso squarcio di umanità, quasi in cerca di un'impossibile espiazione.
Nella guerra di potere e di denaro che dilania la città contesa dalle bande rivali del centro e delle periferie cade anche Scianèl, colpita a morte da Patrizia, la donna del capo che non voleva avere capi, salta in aria con la sua auto il suocero di Genny, tradito e traditore, finisce malissimo il boss della vecchia camorra, vittima dell'ennesimo patto scellerato tra antiche e nuove alleanze. Figli assassini di padri, mariti strangolatori di mogli, bambini condannati da adulti senza coscienza che avrebbero dovuto proteggerli: nessuno si salva, nelle lande livide di «Gomorra». È questa l'idea di partenza, questo il punto d'arrivo. Mai, finora, i protagonisti di tali tragedie disumane hanno suscitato gli effetti catartici di un dramma elisabettiano, né li hanno cercati, mai hanno voluto rappresentare, agli occhi di chi guarda, le vertiginose contraddizioni dell'animo umano. Della realtà cui si ispirano hanno scelto di incarnare un solo aspetto, il più funesto.
«Gomorra» è l'effetto, non la causa di un allarme sociale, la rappresentazione seriale di un fenomeno che viene da lontano e affonda nell'altrove di una realtà degradata le sue radici. Nelle due ultime puntate andate in onda ieri sera si sono incrociate, come sempre, strategie criminali e vendette, guerre di clan e traffici milionari. Ma la cesura tra il «prima» e il «dopo» è stata totale. Il sangue ha chiamato altro sangue, in una narrazione che si candida da sempre a rappresentare il Male senza remissione e senza sconti. Tuttavia, dopo aver messo in atto ogni tipo di crudeltà, ogni sorta di crimine, ogni inimmaginabile violenza, la fine dell'«Immortale» che si sacrifica per evitare l'ennesima carneficina fa imboccare al racconto una strada nuova e senza ritorno. Su una barca di lusso, tra fiumi di coca, pistole e lacrime, è andato in scena un dramma orfano di vincitori. Ora, però, con l'uscita di scena del bravissimo Marco D'Amore, sarebbe opportuno che gli sceneggiatori, già all'opera sulla quarta serie, uscissero da uno schema a forte rischio di stereotipo e al nero cominciassero ad opporre il bianco, al Male il Bene, all'ineluttabilità della morte le domande della vita.
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Il Mattino