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Ogni generazione ha i profeti che merita, e se ai quarantenni italiani sono toccati in sorte Max Pezzali e Mauro Repetto in arte 883 un motivo ci sarà. E chi l'avrebbe mai detto quel 10 febbraio '92 - trent'anni giusti oggi - che "Hanno ucciso l'uomo ragno", quel dischetto di pop leggero lungo sì e no mezz'ora, copertina da fumettone di serie b e titoli come "S'inkazza" e "Non me la menare", fosse destinato a diventare il romanzo di formazione dei figli del Riflusso? E invece. Invece le radio - con relativa cinghia di trasmissione televisiva - iniziano a pomparlo, il passaparola cresce, le cassette circolano e il botto è servito.
Tre dischi di platino e seicentomila copie vendute, numeri assurdi anche per quell'epoca ancora felice.
È l'uovo di Colombo, ma è più che sufficiente per diventare la voce di una miriade di giovani e giovanissimi alle prese con un mondo rivelatosi assai differente da quello che era stato promesso loro. E allora identificarsi nel verismo con cui gli 883 mettono a terra il tema della "grazia o il tedio a morte del vivere in provincia" diventa facilissimo. La padania piatta e nebbiosa che fa da quinta alle disavventure dei nostri diventa una ur-provincia italiana in cui dalle Alpi al Lilibeo ciascuno rivede le statali e i capannoni e i locali dove si sono consumate le sue, di sfighe: le serate sballate, le megafeste che poi non c'erano, le solite cose fatte con i soliti amici, e a chiudere magari pure il cazziatone dei tuoi perché torni tardi. Una sorta di Nirvana dell'Oltrepò, gli 883 intercettano alla perfezione il sentimento di una generazione intera, che le piccole frustrazioni quotidiane raccontate nelle canzoni le vive - o sta per viverle - uguali uguali, e finalmente ha trovato qualcuno che gliele mette giù così come sono e in cui può quindi riconoscersi. Il nostro luogo del cuore era la sala giochi Jolly Blu, avevamo solo bisogno di uno che ce lo dicesse.
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