Nè un capolavoro nè un lavoro inutile, tanto per non schierarsi con i due partiti prevalenti on line: il quattordicesimo album dei Depeche Mode merita un approccio...
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Non sarà un singolo travolgente, ma «Where's the revolution» si chiede come sia possibile non avere la gente in piazza ogni giorno e riflette sul desolato rigurgito dei nazionalismi in un'epoca che si voleva globale. E «The worst crime» è una ballata malata che si adagia in piazze metropolitane trasformate in gogne pubbliche.
Il rock, il blues, il suono digitale («Scum», «You move») sembrano convivere, come le chitarre con le tastiere di Andy Fletcher, rinunciando ogni elemento a pezzi della propria identità pur di dar vita a un cupo bordone, a un oscuro tappeto di note e clangori su cui rotolano le voci della band, attesa il 25 giugno all'Olimpico di Roma, il 27 a San Siro e il 29 allo stadio Dall'Ara di Bologna. Dopo tanto pessimismo - realismo? - Martin Gore cerca il riscatto, forse la catarsi in un pezzo come «Eternal», ma è l'eccezione che conferma la regola. Il disco cita gli amati Kraftwerk («Poorman») ma anche i Pink Floyd («Cover me») e trova la parola del titolo, «Spirit», solo nel pezzo che chiude la corsa, «Fail», anch'essa per la sola voce di Gore, mentre «Poison heart», con le sue chitarre alla Arctic Monkeys, paga pegno eccessivo al tocco del produttore, James Ford, dei Simian Mobile Disco.
A gran parte della critica il precedente «Delta machine» piacque a caldo parecchio, ai fans un po' meno. Succederà la stessa cosa anche questa volta? Potrebbe, anche se il lavoro non richiama certo da vicino il suo predecessore, per il sound, ma soprattutto per il tono, il peso delle parole. La paura di un futuro distopico, l'allarme sulla società a cui andiamo incontro, può essere fraintesa, come ha fatto, non si sa quanto in buona fede, Richard Spencer, che ha provato a reclamare l'appartenenza del trio alla sfera Alt-Right, uno dei movimenti della nuova destra americana, più che rinvigorita dal vento trumpiano. Ma Gahan ha risposto di sentirsi piuttosto parte di «un'estetica socialista», da classe operaia, ricordando gli esordi a Basildon, ma anche l'appeal della copertina, come sempre firmata da Anton Corbjn.
Dal vivo, però, a fare la differenza, saranno «Enjoy the silence», «Just can't get enough», «Personal Jesus». È la condanna di chi ha fatto la storia del rock, e ormai sa quanto sia difficile scrivere il futuro dopo averlo scritto una prima, e anche una seconda volta, e forse persino una terza, molti anni fa. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino