Quei cinque anni hanno marchiato la sua carriera e lui lo sa. «Certo, ho suonato anche con Freddie Hubbard, Woody Shaw, McCoy Tyner, Pharoah Sanders, Herbie Hancock, Ron...
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Le pesa, Kenny?
«No, succede persino se si parla di Shorter o di Hancock, perché dovrebbe dispiacermi?».
Magari perché chi la viene a vedere più che la sua nuova musica si aspetta di sentire l’assolo che cesellò dal vivo per «Human nature», l’hit di Michael Jackson riletto dal divo del jazz?.
«È un mio assolo, nato per uno dei musicisti più straordinari del pianeta, che il pubblico lo ami davvero non è un problema per me, non può esserlo».
Com’era lavorare con Miles?
«Per me è stato facile, per i batteristi lo era di meno, anzi per tutta la sezione ritmica».
Che concerto ascolteremo? I suoi sax, alto e soprano, da chi saranno accompagnati?
«Avrò Corcoran Holt al basso, Samuel Laviso alla batteria e Vernell Brown al pianoforte. E mi concentrerò sui materiali del mio ultimo disco per la Mack Avenue Records».
«Do your dance!» conferma la sua propensione per un jazz che riscopra la missione originaria di far ballare.
«Volevo realizzare qualcosa che potesse muovere le persone, ho visto un party, un giorno, ed ho notato che non era importante il genere di musica che la gente ballava, che contava la voglia di divertirsi, di scandire il tempo, di attraversare il ritmo. Ecco, così il mio sassofono al servizio di un “Calypso chant”, di una “Bossa” che arriva direttamente dal Brasile, di groove che si muovono tra hardbop e funky...».
Non manca il rap.
«Perché dovrebbe mancare? C’è in giro un party che faccia a meno dell’hip hop di questi tempi? Ho coinvolto Mista Enz. Ma c’è anche un accordion indiano, un valzer...».
In fondo, l’attenzione alle musiche altre, il jazz che ingloba il «non jazz», è ancora una lezione di Miles Davis.
«Certo, ma è anche un ritorno alle origini: il jazz uscì dalle sale da ballo per cercare profondità, per diventare qualcosa di più di una musica da ballo ma poi, intellettualizzandosi, ha dimenticato quelle radici, ha corso il rischio di diventare molto meno di una musica da ballo, adatta piuttosto ai salotti».
Insomma, «fight for your right to party», come rappava qualcuno?
«Diciamo che me la godo quando la suono, questa musica, e che è difficile seguirla restando fermi. Ma, anche, che tornerà il tempo per le ballad, che poi si potrebbero ballare anche quelle, ad essere sinceri». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino