Maneskin, concerto a Napoli cinque anni dopo: 10 mila spettatori in due giorni per Damiano e Victoria

Non saranno mai i Rolling Stones, ma non sono nemmeno i quattro ragazzini (quasi) allo sbaraglio che vedemmo nel 2018

I Maneskin tornano a Napoli
Era l'1 dicembre 2018. I Måneskin erano poco più che una promessa, usciti secondi da un «X-Factor» che aveva premiato il presto desaparecido Lorenzo...

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Era l'1 dicembre 2018. I Måneskin erano poco più che una promessa, usciti secondi da un «X-Factor» che aveva premiato il presto desaparecido Lorenzo Licitra. La Casa della Musica, sala piccola del Palapartenope, non era piena, anzi, e gran parte della platea era al femminile, ragazzine al loro primo impatto con il rock (?) stimolate negli ormoni dal sex appeal di Damiano David, anche allora a petto nudo, disposto persino a un'imbarazzante lap dance con tanto di palo.

Stasera e domani, invece, per la band il Palapartenope sarà gremito come un uovo, diecimila persone o giù di lì nelle due serate, come l'intero «Loud kids tour», che avrà code estive negli stadi di Trieste, Roma e Milano (biglietti già esauriti per una delle due date previste sia all'Olimpico che a San Siro) per poi riprendere il giro del mondo con i concerti del nuovo album, «Rush!», appena tornato in top ten. Un successo che fa la gioia dei bagarini on line, del famigerato «secondary ticketing»: per la tappa del 22 aprile all'Arena di Verona si è arrivati (ma era una truffa) a parlare di 1.182.999 euro per un posto in prima fila, contro gli 86,25 euro ufficiali.

In cinque anni, i Måneskin sono diventati gli «italiani più famosi del mondo», reclama, non senza ragione, Damiano David, «al netto dei calciatori e di qualche personaggio della moda», non certo dei nostri politici. Dalla scaletta sono scomparse gran parte delle cover usate allora per allungare il brodo: «Let's get it started» dei Black Eyes Peas, «Master blaster» di Stevie Wonder, una maltrattata «Gimme shelter» degli Stones, «Gangsta's paradise» di Coolio, «Somebody told me» dei Killers, «Un temporale» di Ghemon, «Vengo dalla luna» di Caparezza. Sopravvivono naturalmente «Beggin'» (1,27 miliardi di streams) dei Four Tops e «Amandoti» dei Cccp. «Don't wanna sleep» apre la scaletta, poi arrivano «Gossip», «Own my mind», «Supermodel», «Coraline», «Baby said», «Bla Bla Bla», «Timezone», «Feel», «Mammamia», «Kool kids», «Mark Chapman», «The loneliest», «Gasoline» (con finte fiamme che avvolgono l'asta del microfono del cantante), «Torna a casa», «I wanna be your slave»...

Nel 2018 Damiano perse dopo un po' la voce, Victoria De Angelis perse qualche colpo al basso, Thomas «er cobra» Raggi non era certo un guitar hero, Ethan Torchio pestava sulla batteria provando a non perdere il tempo quando i compagni complottavano contro di lui incasinandosi di brutto.

Oggi i quattro tengono il palco come vecchie canaglie del rock and roll, hanno studiato, ascoltato, guardato, copiato, somatizzato, imparato. David finisce a torso nudo come Iggy Pop (questo, come ogni paragone nell'articolo, è puramente indicativo, certo: non si confonde la lana con la seta, i padri fondatori con gli epigoni dell'ultima ora) ma ha una vocalità più glam rock; Victoria è ormai il secondo sex symbol dell'ensemble, Raggi e Torchio fanno il loro mestiere con puntualità, sia pur senza essere dei virtuosi.

Ma al rock and roll serve più la pancia del virtuosismo e loro la pancia non la rinnegano, anzi, il rock del gruppo è orgogliosamente coatto e proletario, tra echi di heavy metal e di crossover c'è spazio per reminiscenze degli Slade e dei Sweet, prima ancora che dei Killers, dei Franz Ferdinand, dei Red Hot Chili Peppers.

La ruggine delle chitarre elettriche non nasconde le voglie melodiche, i riferimenti ai modelli storici (con Iggy si sono tolti lo sfizio di suonare, con Tom Morello pure) non sono certo da puristi, anche perché i quattro non cercano di conquistare la platea anzianotta del rock che fu, sino a confessare, come ha fatto di recente David nell'ultima puntata del «Cachemire podcast» di Edoardo Ferrario e Luca Ravenna, imbarazzo nel fare da supporter a Mick Jagger e Keith Richards: «Il fandom della band sono esattamente le persone che sotto i nostri post scrivono: Non sarete mai i Rolling Stones!». 

Non saranno mai i Rolling Stones, come il loro rock non sarà mai la colonna sonora di un secolo che sembra aver optato per altre sonorità. Ma non sono nemmeno i quattro ragazzini (quasi) allo sbaraglio che vedemmo nel 2018: 18 dischi di diamante dopo, 259 dischi di platino dopo, anche la platea è cresciuta con loro, godendosi l'adrenalina di qualcosa che non sappiamo chiamare diversamente: rock. 

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Il Mattino