Formidabili quegli anni ‘90 in cui il rock italiano divenne davvero italiano. È il senso di «La mia generazione», il nuovo album di Mauro Ermanno...
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Giova ricanta pezzi a volte iconici, a volte minori, ma sempre entrati nella pelle alla sua generazione: «Non è un disco di cover, ci avrei messo molto meno, persino per fare un lavoro di inediti ci avrei messo di meno, ho già metà canzoni pronte. Qui si trattava di rileggere la storia mia e delle persone che hanno diviso quel tempo, sopra e sotto il palco». Già, perché la scaletta parte con «Aspettando il sole» (Neffa) e va giù dritta toccando materiali resistenti e pericolosi come «Lieve» dei Marlene Kuntz, l’epico «Forma e sostanza» dei Csi, «Il primo dio» dei Massimo Volume, una beatlesizzata «Non è per sempre» degli Afterhours, «Huomini» dei Ritmo Tribale immersa in un pentolone malefico a metà tra Gun Club e Iggy Pop, «Stelle buone» che l’autrice Cristina Donà ha appena rifatto anche lei quasi a mostrare la necessità di tornare su questi materiali ancora caldi.
Forse è inevitabile che a marchiare questo lavoro sia stato Mauro Ermanno, che fin dall’inizio, 22 anni fa, con i La Crus tendeva un ponte tra la scena gruppettara underground e quella cantautorale: della sua band, intanto, riprende «Nera signora». Tra Casino Royale e Bluevertigo, Ustmamò e Massimo Volume manca la scena meridionale: «È vero, non ci sono Almamegretta e 99 Posse, ed e grave, non solo perché con Raiz ho collaborato spesso. Ma non baro, devo fare quello che so fare: non rappo come Neffa, non so salmodiare come Giovanni Lindo Ferretti, non posso violentare la lingua napoletana. Con Raiz spero che recupereremo dal vivo l’occasione persa».
Interprete maturo, Giovanardi trova un minino comun denominatore sospeso tra Nick Cave e Morricone, non cerca i duetti, ma invita volentieri alcuni dei protagonisti originali della vicenda, sempre però spingendoli a frequentare pagine altrui: Manuel Agnelli, Samuel, Emidio Clementi, più Rachele Bastreghi dei Baustelle, perché, spiega, «sento la sua band come un continuamento di quella stagione marcata da etichette come Vox Pop e Black Out. Di quegli anni ‘90 in cui capimmo che non dovevamo cantare in inglese ma farci capire e e in poco tempo passammo da un pubblico di 2-300 persone a 2.000 con i La Crus, per non parlare delle centinaia di migliaia dei concertoni del Primo Maggio». Formidabili quegli anni. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino