Quando gli chiedevano del futuro del cinema, lui che era stato innovatore rivoluzionario di quell'arte, descriveva scenari immaginifici poco lontani dal vero: «Non...
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«Il vero criterio di un cineasta è lo sguardo» spiegava, e per raccontare della ritrovata volontà di tornare sul set aggiungeva, memore della lunga pratica psicanalitica: «È ricominciata l'avventura del mio desiderio». Più volte, negli ultimi anni, aveva accarezzato l'idea di fare un film sul grande madrigalista Gesualdo da Venosa, appassionandosi al tragico amore di sua moglie Maria d'Avalos per Fabrizio Carafa. Ci aveva lavorato, aveva scritto il soggetto con il cognato sceneggiatore Mark Peploe, aveva fatto i sopralluoghi a Napoli, «affascinato soprattutto da piazza San Domenico Maggiore e dalla chiesa meravigliosa che la domina». Sarebbe stato un film che, guardando al passato, raccontasse, nello stesso tempo, il presente: «In fondo, che cosa c'è di più intrigante di una storia sui personaggi della fine del Cinquecento i cui cognomi ancora compaiono nell'elenco telefonico di Napoli?». Poi non se ne fece nulla, spesso nel cinema le cose si perdono per ragioni puramente mercantili e progetti meravigliosi finiscono nel limbo dei desideri irrisolti. Ma Bernardo Bertolucci sapeva trasformare le sconfitte in nuove, personali sfide. Spiegava, del mancato progetto su Gesualdo («una specie di feticcio con cui danzo da anni»): «Forse non siamo stati abbastanza complessi» e il sorriso mitigava l'ironia tagliente.
Poeta come il padre Attilio, ma non solo per questioni di Edipo, maestro di un cinema più grande della vita, Bertolucci aveva cominciato come assistente di Pier Paolo Pasolini sul set di «Accattone». Due ragazzi alle prime esperienze artistiche entrambi, un unico giro di amici, tra Alberto Moravia, Elsa Morante e Adriana Asti che poi sarebbe diventata la compagna e la tormentata musa del regista emiliano. Con la prima raccolta di versi «In cerca del mistero» vinse nel 62 il Premio Viareggio, nello stesso anno debuttò nella regia con «La commare secca» conquistandosi, anni più tardi, con «Prima della rivoluzione», la fama di miglior autore di una nuova generazione di cineasti in grado di coniugare ispirazione creativa e impegno civile. Per Sergio Leone scrisse, con Dario Argento, il soggetto di «C'era una volta il West» e conquistò una statura internazionale nel 1970 con due capolavori: «Strategia del ragno» e «Il conformista».
Anni di grandi utopie e di grandi ribellioni, i Settanta. Bertolucci li trasfigurò da par suo in «Ultimo tango a Parigi», il film del trasgressivo amore tra Marlon Brando e Maria Schneider affascinò il mondo e turbò i benpensanti: con una sentenza senza precedenti la pellicola finì al rogo e il suo autore privato per cinque anni dei diritti civili. «Ultimo tango» fu lo scandalo, la fluviale saga di «Novecento», divisa in due atti, la consacrazione. Il trionfo arrivò con «L'ultimo imperatore»: raccontando della Città Proibita dove Pu-Yi coltivava la sua solitudine di sovrano bambino il film vinse nove Oscar, Bertolucci diventò il primo, e finora l'unico italiano, a conquistare la statuetta per la regia di un'opera in lingua inglese. Una notte di gioia incontenibile: «Se New York è la Grande Mela, The Big Apple, Los Angeles stasera è per me il Grande Capezzolo, The Big Nipple» dichiarò in mondovisione il regista, ebbro di felicità. Vennero poi il languore struggente del «Tè nel deserto», la pace interiore del «Piccolo Buddha», l'imperiosa vitalità di «The Dreamers». Alla categoria dei sognatori, del resto, Bertolucci si era iscritto dalla nascita, attraversando da protagonista una stagione di slanci rivoluzionari e vivendo sulla propria pelle il disincanto della realtà: «Ci riempivano grandi speranze, sogni, utopie, andavamo a dormire la sera aspettando di svegliarci con il futuro». Seguace appassionato della Nouvelle Vague, da presidente di giuria della Mostra di Venezia, nell'83, lasciò il segno con «un'operazione di mafia culturale», come la definiva divertito: decise cioè di assegnare la maggior parte dei premi a «Prenom: Carmen» di Jean-Luc Godard, il mito della sua giovinezza di cinéphile. Trent'anni dopo, nello stesso ruolo, mise in atto un'altra piccola rivoluzione e attribuì per la prima volta il Leone d'oro a un documentario, «Sacro Gra» di Gianfranco Rosi.
I premi, li aveva vinti tutti. Aveva diretto le star più prestigiose, per De Niro, Depardieu, Reeves, Malkovich, Sandrelli, Irons era un maestro e un amico. Maria Schneider non gli perdonò mai la scena del burro in «Ultimo tango», ancora ieri paragonata a uno stupro dall'associazione femminista «Nonunadimeno», nonostante il regista si fosse più volte scusato di averle arrecato quella sofferenza psicologica: «Ma se crediamo allo stupro, allora dobbiamo credere che Brando morì davvero nella scena finale».
Titanico anche quando era costretto a confrontarsi, come negli ultimi tempi, con piccoli spazi e piccoli budget, Bertolucci aveva annunciato più volte lo studio di un «Novecento Atto III» destinato a concludersi alle soglie del nuovo secolo e con Giampaolo Letta di Medusa «stava ragionando di un nuovo progetto». A Cannes nel 2011 una speciale Palma delle Palme lo ripagò delle volte in cui quel premio gli era sfuggito. Nella dedica «agli italiani che hanno ancora la voglia di protestare e di indignarsi» c'era tutta la sua idea dell'arte, del cinema, della vita. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino