Figlio di un terremoto e di uno sbadiglio e padre di una poetica unica e diseguale, Jonathan Demme, scomparso ieri a 73 anni, non lascia eredi cinematografici, ma stanchi...
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CRITICA DIVISA
Sul suo cinema, apogeo dell'inclassificabilità, i critici discutevano fino a litigare. Da un lato sostava Demme il serio, lo studioso di Truffaut e del cinema italiano, l'amico di Bellocchio e Monicelli, l'artista che aveva lottato per importare in America La grande strada azzurra di Gillo Pontecorvo. Dall'altro, il regista che quando aveva mano libera dalle imposizioni degli studios sembrava rinascere ed emanava al contrario sofferenza pura alla guida di una macchina ricca, ma irregimentata. Tra i due Demme, in una diversità di generi (la commedia scatenata- il thriller metafisico- l'indagine psicologica sulle motivazioni di un delitto) che rendeva complicata la lettura di una pretesa coerenza e di un segno che andasse in una sola direzione, chi era chiamato a giudicarne le opere cedeva il passo alla sottovalutazione. Pur ricevendo plausi e premi per Una volta ho incontrato un miliardario e per Qualcosa di travolgente (Melanie Griffith, e chi se la dimentica più?), a fargli conquistare il rispetto collettivo fu la cupezza introspettiva, spaventosa e senza redenzione de Il silenzio degli innocenti. Nell'ipotesi non così peregrina che il male infetti fino a deformarne carattere e azioni chiunque ci si trovi a contatto e nella figura di Jodie Foster- eroina greca precipitata in un contesto modernissimo, ancor più che nel mefistofelico Hannibal Lecter interpretato da Antony Hopkins- c'era la chiave più interessante di un'opera che vinse l'Oscar, fece storia e diede vita a dimenticabili cloni, secondi tempi inadeguati, operazioni di marketing. Demme, anima nomade, era già lontano.
In una seconda parte di carriera in cui Hollywood gli aprì finalmente le porte rimaste chiuse in altre occasioni, Demme, grande amante della musica, amico fraterno di Lou Reed, Enzo Avitabile, David Byrne e Bruce Springsteen, suonò note diverse da quelle che l'uditorio si attendeva. Approfitto dell'esito del Silenzio per farsi produrre ciò che gli interessava davvero, unì in una sintesi felice una storia di denuncia come Philadelphia sul tema- scomodo e all'epoca intoccabile e sgradito dell'Aids- ai meccanismi di identificazione popolare che sono alla base di qualunque commozione e poi, ad altre denunce, si dedicò con l'arma non sempre a salve del documentario con la stessa identica onestà che in Rachel deve sposarsi metteva in bocca alla protagonista: «La misura di una vita bella non è data da quanto tu sia amato, ma da quanto amore sei riuscito a dare». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino