VENEZIA - Francesco Rosi e sua figlia Carolina, seduti fianco a fianco sul divano, e sullo schermo di casa i grandi film del regista: «Salvatore Giuliano»,...
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Citizen Rosi, il cittadino Rosi. Il titolo della retrospettiva che gli dedicarono a New York qualche anno fa piaceva molto a Franco (è così che lo chiamavano i familiari e gli amici e così lo ha sempre chiamato con amore Carolina). Gli piaceva che venisse sottolineata la forza etica del suo cinema, fortemente impegnato a capire i meccanismi di una democrazia imperfetta e, nello stesso tempo, capace di inventare un nuovo linguaggio narrativo e di fare scuola nel mondo. «Ho cercato di essere presente nella realtà del mio Paese» dice il regista scomparso a gennaio di quattro anni fa nel documentario scritto con Fabrizio Corallo e Anna Migotto, passato ieri fuori concorso tra gli applausi e di prossima uscita nelle sale con l'Istituto Luce, prima di essere proiettato sugli schermi di Sky Arte. Come definirebbe suo padre l'Italia che viviamo, Carolina? «Sarebbe a dir poco perplesso, probabilmente continuerebbe a difendere i valori imprescindibili della democrazia, lotterebbe per principi che riteneva incalpestabili. In un'epoca populista, trasformista e molto poco ragionata qual è quella che viviamo, si indignerebbe augurandosi al più presto il cambiamento». Fino all'ultimo ha lavorato a un progetto che, nella sua idea, avrebbe dovuto fare chiarezza sullo spirito del tempo: aveva immaginato di riunire nella quiete della masseria di «Tre fratelli» intellettuali, storici e giornalisti per discutere dello stato di salute morale dell'Italia. «Non abbiamo fatto altro che seguire le sue indicazioni» dicono Carolina e Didi per spiegare la struttura del loro lavoro. Sullo schermo, infatti, parlano del cittadino Rosi e del suo cinema a schiena diritta colleghi come Tornatore, Andò, Giordana, amici come il carissimo Dudù La Capria, magistrati come Di Matteo, Calia, Colombo. E poi la parola passa alle immagini potentissime dei film. «Applicando il suo metodo abbiamo messo in fila i fatti senza badare all'ordine cronologico dei film e ci siamo ritrovate dentro la storia del nostro Paese» spiega ancora Carolina: «Mi raccontava il potere che si corrompe e gli anticorpi che la democrazia deve attivare per salvarsi».
Da questo taglio narrativo emerge tutta l'intensità, spesso profetica, del cinema di Rosi. Nei suoi film le intuizioni sulla doppia verità del potere, nutrite dell'attento studio delle carte, sono illuminanti. Ma in un'epoca di informazione orizzontale dilagata sui social, ha ancora un ruolo il cinema civile? Carolina: «Credo sia indispensabile, ora più che mai servirebbero uomini come lui, capaci di fare della propria vita una missione. Franco è stato un regista scomodo, ha avuto problemi ma non si è fatto mai vincere dallo sconforto. Andiamo avanti era la sua frase preferita. Oggi, invece, sull'analisi vince la spettacolarizzazione. Oggi le figure negative vengono riproposte senza filtri e senza contraddittorio. In Salvatore Giuliano mio padre non ha mai mostrato la faccia del bandito, perché non voleva mitizzarlo. Aveva chiara la missione etica del regista». In tante occasioni gli ha fatto da aiuto sul set: «Era rigoroso, attento, preparatissimo. Considerava la sua squadra tecnica una famiglia e ha rinunciato a dei progetti se non poteva portarla con sé. Da spettatore, poi, era onnivoro e curioso. Spesso andavamo al cinema insieme e, se il film gli piaceva, telefonava all'autore per complimentarsi». Attrice, produttrice, donna di gran temperamento, in «Citizen Rosi» Carolina si sente soprattutto, e semplicemente, figlia: «Con me Franco è stato un uomo rigoroso e un padre di una dolcezza unica. Solo Luca De Filippo, mio marito, aveva una personalità altrettanto interessante. Mi mancano molto, tutt'e due». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino