Teresa De Sio, parlo di me: «Addio alla musica con l'ultimo concerto: voglio fare la stilista»

Teresa De Sio, parlo di me: «Addio alla musica con l'ultimo concerto: voglio fare la stilista»
Voglia e turna', cantava Teresa De Sio, era sempre estate, ormai già quarant'anni fa. Pino Daniele stava mandando in giro per l'Italia lo spirito della casa, la...

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Voglia e turna', cantava Teresa De Sio, era sempre estate, ormai già quarant'anni fa. Pino Daniele stava mandando in giro per l'Italia lo spirito della casa, la bella mbriana, e lei aveva trovato ispirazione in una poesia di Salvatore Di Giacomo, per far sentire che da una finestra aperta venivano pianofforte e voce. Massimo Troisi era sul punto di scusarsi per il ritardo con il suo secondo film, Eduardo si era dato alla regia lirica di un'opera di Rossini. Così davvero veniva a Napoli la voglia e turna', uscita nell'estate 82 da questa voce distesa e di seta, per la prima volta arrivata fino in cima alla Hit Parade, la vetta della popolarità per un'artista che dalla musica popolare era partita. Ora è tempo d'altro, dice Teresa De Sio. È tempo di liberare le note per un'ultima notte, un ultimo concerto, e davvero darsi alla seta, una ripartenza come stilista.

Dov'è che oggi la porterebbe la voglia e turna'?
«Al mare che adoro. Che non è un mare qualunque. Io vivo a Roma e qui non è bello come l'acqua dei miei ricordi, a Maratea, dove sono cresciuta. Il marito di mia madre aveva una casa lì. È stato il mare della mia vita, ma quella casa non c'è più, non ci sono più le persone che l'abitavano e quel pezzetto d'acqua tra la Campania e la Basilicata mi manca tantissimo».

Era pronta nell'estate del 1982 per tutto quel successo?
«Non lo ero io, non lo era nessuno tra quanti avevano lavorato al progetto insieme a me: Maria Laura Giulietti, Gigi De Rienzo, Francesco Bruno. Anzi. Ricordo benissimo quando facemmo sentire il primo provino dei brani a un discografico milanese dell'epoca. Disse: è roba troppo sofisticata, difficile, la gente non la capirà. Uscimmo da quella riunione mogi, promettendogli di cambiare quasi tutto, ma mentendo. Non toccammo nulla. Vendemmo due milioni di copie».

Significa che sul mercato c'è spazio anche per progetti difficili?
«Non era un disco difficile, era solo un disco diverso da quello che andava di moda in quel periodo. Nell'arte non esiste la categoria del difficile. Esistono il bello e il brutto, il sincero e il falso, esiste ciò che emoziona e ciò che lascia freddi».

Qualche settimana fa Anna Pavignano diceva che a Napoli si arriva sempre a un bivio: resto o vado via, e poi ci si divide tra chi torna e chi no. Lei?
«A me non è mai importato niente di questa discussione. Sono nata a Napoli e sarò grata per sempre a mia madre che andò lì per partorire, ma sono cresciuta fino ai miei 17 anni a Cava de' Tirreni. Una volta finito il liceo, sono fuggita. Non per questioni territoriali o perché non amassi restare. Sono scappata per motivi miei, personali. Avevo una famiglia problematica, volevo vivere la mia vita, da più di quarant'anni sono a Roma, che considero tuttora la mia città. Sono figlia di un avvocato, in casa si tendeva a parlare in italiano. Ma poi andavo a scola e là c'era la magia del dialetto. Così sono diventata bilingue. Le canzoni in napoletano le ho conosciute con la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Mi resi conto che potevo fare questo mestiere senza dover imitare nessun altro cantante. Possedevo qualcosa di strepitoso, il patrimonio di una lingua, un'intera storia con cui si poteva raccontare la vita di questa città. Una lingua che era persino più musicale dell'italiano e per giunta più facile da cantare. Almeno per me. Un friulano magari qualche accento lo sbaglia».

La sua voce è cambiata da allora?
«Spero proprio di sì, come sono cambiati il resto del mio corpo e la mia visione del mondo. La voce appartiene a entrambi gli aspetti. È del corpo perché si modula e cresce, come i fianchi, come le gambe, ma appartiene pure alla crescita interiore e psicologica. Da giovane canti come gli uccelli sui rami, quando sei più matura hai una consapevolezza superiore delle parole, avverti un desiderio maggiore di far comprendere cosa dici, e non solo il piacere del vocalizzo».

Esiste secondo lei una voce meridionale, espressione di un pensiero meridionale?
«Dovremmo parlarne fino a domani. Esiste sicuramente, prima che passasse Garibaldi era molto più caratterizzato. Come tante altre cose, quel pensiero è mutato. Come i cibi con la globalizzazione, come il sesso nella fluidità. Tutto si muove e si mescola, tutto cambia, alcune cose in meglio, altre in peggio».

In lei sente più una spinta verso la tradizione o verso l'innovazione?
«Si prendono continuamente a cazzotti. Non faccio altro che fischiare e far passare la signorina in calzoncini corti con il cartello dei round in mano, per il loro incontro di boxe. Ho fatto quello che sentivo di saper fare e quello in cui credevo. Solo che adesso la musica si sta un po' lateralizzando e ho intenzione di morire artisticamente giovane».

Che cosa significa?
«Voglio lasciare con questa mia immagine ancora fresca, nel pieno della sua potenza. Non voglio vivere quel patetico declino che ogni tanto porta a diventare il pupazzo di sé stessi, l'imitazione dell'artista che sei stata. Direi che il mio l'ho fatto. È tutto lì. Sto organizzando un grosso concerto di saluto al pubblico, un commiato a cui parteciperanno tutti i musicisti che hanno lavorato in questi anni con me, più altri ospiti di grande rilievo. Sarà un concerto di duetti. Oh, se poi scopro che una sera mi va di fare una cantata, me la faccio».

E dopo?
«Sto iniziando una nuova attività da stilista, proprio a Napoli. Disegno abiti, ho terminato la prima collezione. Presto andrà in distribuzione. Abiti in seta lunghi, completi, pantaloni e giacchetta. È un'attività alla quale tengo moltissimo. La mia casa è affogata di vestiti, tutti belli rovinati da me. È una passione che ho sempre avuto, come ne avevo per la scelta dei costumi. Il caso ha voluto che incontrassi un gruppo di persone che lavorano nella moda. Un po' l'ho assecondato io, un po' gli ho forzato la mano, un altro po' le mie idee sono piaciute. Così comincio la mia terza vita, dopo quella da musicista e da scrittrice».

Che cosa l'ha portata alla narrativa?
«La lettura. Ero molto affascinata dal tarantismo, dal mito del morso della taranta. C'erano parecchi saggi sul tema, tra cui la vera e propria Bibbia di questo argomento che è Sud e Magia di Ernesto De Martino e l'altro suo lavoro, La terra del rimorso. Quando ho iniziato il mio studio di storia della musica popolare, andavo spesso in Puglia e in Calabria ad ascoltare canti e intervistare persone. Allora studiavo Antropologia all'Università. Mi sono accorta che sul tarantismo non esisteva un romanzo. Immergermi in questa impresa per Metti il diavolo a ballare, è stata un'esperienza bellissima. Scrivere musica è scattare una fotografia, un romanzo è partire su una nave per un viaggio da cui non si sa se si ritorna».

Così non è tornata, e ne ha scritto un secondo.
«L'Attentissima è la storia di un cambio di identità sessuale, ispirata a H.E.R., la mia violinista. Una donna che quando ha cominciato a suonare con me, ormai molti anni fa, era il mio violinista. Eravamo molto amici, adesso siamo molto amiche. Mi ha introdotta in un mondo che non conoscevo, anche dal punto di vista farmacologico, chirurgico, psicologico. Ho costruito un noir su un tema verso il quale le nuove generazioni sono più pronte di noi. Non me scandalizzo e non me ne rammarico».

Teresa, perché in tutta la sua carriera non è mai stata a Sanremo?


«Perché ci sarei andata solo in cambio di un milione di dollari e nessuno me lo ha mai offerto. La verità è che oggi Sanremo non rappresenta più il parco di gente che faceva solo musica leggera. Oggi si può anche salire su quel palco per dire qualcosa. Se poi ti danno pure un milione di dollari, è ancora meglio».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino