Pino Daniele Day, Massimo Ranieri: «Ricominciamo dal Plebiscito»

Io non c'ero in piazza del Plebiscito quel 19 settembre 1981. Non ricordo più dov'ero, impegnato con il lavoro, ma ricordo dove non ero, ricordo che mio fratello mi...

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Io non c'ero in piazza del Plebiscito quel 19 settembre 1981. Non ricordo più dov'ero, impegnato con il lavoro, ma ricordo dove non ero, ricordo che mio fratello mi telefonò il giorno dopo per dirmi quello che era successo, che ero stato uno stupido, perché dovevo esserci, mi ero perso «'nu spettacolone», i ragazzi «avevano arrevotato», sul palco, sotto il palco, la città «era come rinata».

Quarant'anni dopo, se stiamo qui ancora a parlarne, se «Il Mattino» - dopo la telefonata di mio fratello corsi a procurarmi il giornale per leggere il racconto di quella notte di note - gli dedica uno speciale sul web (stavolta ci sono, eh) e un supplemento, forse aveva ragione mio fratello. Mi sarebbe piaciuto esserci, vederli quegli scugnizzi con cui sono cresciuto, la cui musica mi ha accompagnato. Nel periodo di maggior distanza, non solo fisica, da Napoli loro mi davano la speranza che non tutto fosse perduto, che la nostra amata-odiata città potesse cambiare, riscattarsi, rinascere dalla sue ceneri.

Quella notte cambiò qualcosa, lo dico io che non c'ero, se non in chi governava la città, di sicuro in chi la viveva. I duecentomila di piazza del Plebiscito divennero cittadini, non si sentirono più sudditi. Quei ragazzi che avevano espugnato la piazza trasformata in parcheggio, avevano trovato la loro musica, i loro portavoce e adesso reclamavano i loro spazi, un'attenzione mai concessa.

Il neapolitan power fu un sogno. Il nome di quella corrente guardava al black power, al potere nero, Pinotto si diceva un Nero a Metà, pensando a un libro che aveva letto, pensando a Mario Musella, pensando a James Senese. «E chi dice che Masaniello poi negro non sia più bello»? Un Masaniello nero, come il Pulcinella nero, come la tradizione rovesciata e, quindi, inverata.

All'epoca di quel bagno di folla di piazza del Plebiscito - che non vedo l'ora di rivivere con il docufilm di Federico Vacalebre (ndr: lo troverete alle 19 di domani su ilmattino.it) e sul supplemento allegato al giornale (ndr: in edicola sempre domani) - i tradizionalisti, i conservatori, gli alfieri della canzone classica napoletana, non amavano Pino Daniele e i suoi «pard», per dirla alla Tex Willer: James Senese, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rino Zurzolo e Joe Amoruso. Gli ultimi due non ci sono più, come o Jammone, e ci mancano, come ci mancano. Ma hanno avuto il tempo, proprio come il Lazzaro Felice, di vedere quei tradizionalisti che li avversavano diventare loro sostenitori, promuoverli a nuovi classici.

Con Pino abbiamo fatto meno cose insieme di quelle che avremmo voluto e potuto. Qualcosa in tv, ad esempio, senza mai portare a termine quel progetto di un disco di sue canzoni da me cantate e da lui prodotte. Pensavamo di avere una vita davanti per realizzarlo, ma invece... Siccome Napoli non dimentica, alla vigilia del quarantennale di quel concerto grosso, apre oggi una mostra, che mi dicono molto bella, da Made in Cloister dedicata al nostro più grande cantautore. Mi dicono che c'è anche una foto che ci vede insieme, ce la scattò Guido Harari a Formia nel 1984, mentre stavamo provando un duetto su «Anna verrà»: ridiamo, felici.

Mi piace esserci anche io in questi giorni di ricordo di Pino: con quella foto nella mostra curata dal figlio Alex Daniele e da Guido Harari, con lo speciale on line de «Il Mattino», anche se rimane il rimpianto di non essere stato in piazza del Plebiscito quel 19 settembre del 1981, al più grande concerto napoletano di tutti i tempi. A proposito, buon San Gennaro a tutti.
 

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Il Mattino