Il miglior album è di un cantautore storico, ma mai laureato all'Ariston, dove questa volta metterà piede per ricevere la prestigiosa Targa Tenco che la giuria...
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«Il disco con la paperella in copertina ha vinto. È un disco di canzoni scritte in napoletano non tanto per sottolineare un'appartenenza territoriale o un legame con la tradizione, ma per un'intima scelta poetica», commenta a caldo Loguercio, ex Little Italy, lucano con una lunga frequentazione, non solo artistica, all'ombra del Vesuviio: «In questa sezione, nell'albo d'oro delle Targhe Tenco, troviamo Enzo Gragnaniello, Teresa De Sio, Pino Daniele, 99 Posse, Almamegretta, Daniele Sepe, Enzo Avitabile. Sono veramente commosso e ancora incredulo. Ringrazio Napoli che mi ha fatto scoprire ed amare la sua meravigliosa lingua e dedico il premio a tutti quei fratelli e sorelle che portano qui altre lingue, dialetti sconosciuti, suoni mai sentiti, e che ci danno la possibilità non solo di imparare, ma anche di inventare parole nuove».
Da lucano che negli anni Ottanta ha attraversato la stagione creativa della Vesuwave con la piccola orchestra talkingheadsiana dei Little Italy, Loguercio usa nelle sue canzoni, nelle sue litanie, nelle sue giacutalorie, nelle sue melodie appassionate, un napoletano frutto di incroci azzardati, barocco come quello di Enzo Moscato, ma anche pornoromantico come quello degli Squallor di «Curnutone». Pubblicata da Squilibri, «Canti, ballate e ipocondrie d’ammore» è una raccolta articolata della sua opera finora disseminata tra dischi, performance e video e riletta sull’onda delle versioni live accompagnate dall’organetto di Alessandro D’Alessandro, nostalgicamente alla ricerca di qualcosa che non conosce, che forse non è nemmeno mai esistita, che sa di veracità quanto di esotismo.
Nel cd più dvd più libretto Loguercio sfodera il suo salmodiare pallido assorto e trasforma il suo recitar-cantando che assomigliava a un pre-rap dei vicoli dove non entra mai il sole in un una «impepatella cosmica», che denuda e riveste e traveste la canzone napoletana classica per inverarla e rifiutarla e preservarla. Accanto a «Amore ammaro», «Giaculatoria dell’ammore indifferente» e «Friariella», brani già cult, spuntano novità come la «Ballata dell’ipocondria e del vibrione innamorato», godibilissimo cozzar (verbo non scelto a caso) di colto e popolare, di modernità apocalittica e religiosità arcaica, di sacro postmoderno e profano prearcaico. In fondo, le parole su carta regalate dai suoi amici (da Maria Pia De Vito a Gabriele Frasca), le fotografie che altrimenti punteggiano il libretto, i videoclip di Antonello Mataazzo e quant’altro riportano qui contenuto proprio a quegli anni Ottanta in cui tutto sembrava la next wave, la prossima onda, anche il bi/sogno di forme espressive capaci di convivere insieme, di fare teatro canzone in una maniera azzardata e imprevista, di essere sperimentatori nel segno della tradizione, cantastorie multimediali. Ieri come oggi, Canio cerca, provoca e ottiene corto-circuiti stilistici e contenutistici, ma ora ha imparato anche a riaccendere la luce, dopo. Nonostante l’ipocondria e il mal d’ammore che spesso, come lui, abbiamo incontrato. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino