Roberto De Simone: «Il mio Stravinskij cubista della musica»

Roberto De Simone: «Il mio Stravinskij cubista della musica»
Il sei aprile del 1971, l'ottantanovenne Igor Stravinskij muore, a New York per un attacco cardiaco. Nove giorni più tardi, i suoi funerali saranno celebrati a Venezia:...

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Il sei aprile del 1971, l'ottantanovenne Igor Stravinskij muore, a New York per un attacco cardiaco. Nove giorni più tardi, i suoi funerali saranno celebrati a Venezia: una gondola trasporta il feretro fino alla Basilica dei santi Giovanni e Paolo e, di lì, all'isola di San Michele, dove il compositore è sepolto, accanto a Sergej Djagilev che gli fu complice e amico geniale. Per alcuni, è stato il musicista più importante del ventesimo secolo. Le classifiche, in casi del genere, sono imbarazzanti. Ma è significativo che Roberto De Simone, oggi, affermi: «Credo sia impossibile capire e apprezzare il Novecento musicale senza conoscere davvero Stravinskij e Bartók».

L'epifania stravinskiana, nella vicenda creativa di De Simone, si materializza nel 1946. «Nella classe di composizione di Renato Parodi c'era, con me, Carlo Bruno, pianista straordinario e amico carissimo. Fu lui, che aveva possibilità economiche migliori delle mie, a comprare i primi dischi di Stravinskij e a farmeli ascoltare. Rimasi folgorato, soprattutto, dalle composizioni del periodo russo: L'uccello di fuoco e Petrouchka mi rivelarono un mondo musicale meraviglioso».

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Sono passati tre quarti di secolo: che idea si è fatto della grandezza di Stravinskij? Cosa lo rende, ai suoi occhi, straordinario?
«Il modo in cui sappia trattare l'immaginario, pensando i suoni e rendendoli all'ascolto. Con fantasia, vivacità di colori, equilibrio ritmico. Basta ascoltare Histoire du soldat per rendersene conto. Quanti sono stati i padroni dell'immaginario nella storia della musica? Il Rossini dei concertati d'opera. Il Beethoven dei quartetti parliamo di pochi giganti, come si vede».
Il periodo russo di Stravinskij culmina nel Sacre du printemps, altra pagina epocale. Siamo negli anni Dieci del ventesimo secolo, e l'Europa musicale ribolle
«Dopo la morte di Wagner, si attua una lacerazione culturale. Alcuni autori ne vegliano il lascito cromatico: Strauss, anche Mahler. Altri agiscono da fieri oppositori, innestando sul sinfonismo esistente una nuova idea di orchestrazione. Tra questi ci sono Stravinskij e Debussy».
I due ebbero vari contatti.
«Si stimarono certamente. A simboleggiare il loro comune rifiuto nei confronti del wagnerismo resta l'esecuzione a quattro mani del Sacre, un anno prima del debutto del balletto».
In L'uccello di fuoco, però, l'uso di procedimenti cromatici è chiaro.
«Sì, ma rappresenta un retaggio espressionistico. Il ricorso al cromatismo non è formalizzato, incanalato in un racconto didascalico. Nella capacità meta musicale di non riferire la scrittura al soggetto evocato, Stravinskij riafferma un punto di vista personale: che la musica non possa esprimere altro che se stessa, senza descrivere sentimenti né immagini».
C'è un'opera di Stravinskij che ama specialmente?
«Forse Histoire du soldat. Può sembrare una pagina semplice e invece è un lavoro meditatissimo, nota per nota, idea per idea. L'idea del soldato che guarisce la ragazza con la musica, come in una storia di tarantismo, è bellissima; mi rimanda a Basile. E poi, cosa si ascolta? Un tango, un valzer da organetto, un ragtime. Il compositore, cioè, va in direzione opposta rispetto all'ufficialità del sistema musicale, mentre il mondo pangermanico si sfalda: siamo nel 1917».
Stravinskij è autore troppo curioso per concentrarsi su un'unica ricetta alternativa?
«Non inventa un sistema compositivo altro, infatti, ma attiva una forma di antagonismo alla dottrina incardinata, rimanendo all'interno del sistema di cui egli stesso è parte. Trova un equilibrio personale, inedito, come Picasso con il Cubismo. Histoire per me ha molti punti di contatto con l'estetica cubista».
A proposito di Picasso: lui e Stravinskij, proprio nel 1917, vengono a Napoli. Tre anni dopo nascerà Pulcinella, svolta neoclassica nella parabola stravinskiana.
«Stravinskij è interessato alla meccanicità del linguaggio musicale, non alla sua dimensione romantica, narrativa. Così trova nel Settecento napoletano di Pergolesi un ambito di interesse soprattutto strutturale. E non a caso, poi, guarderà più indietro, fino a Gesualdo. Non è in termini di vocalità melodica che Stravinskij tragga i risultati più originali. Il suo può essere un esercizio di stile, non un gioco di imitazione».
In quegli anni, però, Schoenberg un linguaggio alternativo lo propone...
«Stravinskij apprezza Schoenberg, ma non si fa attrarre dalle sue teorie. Non ha bisogno di un linguaggio nuovo consolatorio, preferisce passare dal folklore al neoclassicismo. Quando, negli anni Cinquanta, si avvicinerà al mondo dodecafonico, guarderà a Webern, autore che nello studio del fonema e nel timbro ha elementi di riferimento. Come lui».
C'è un altro pezzo stravinskiano, Les noces, che le è caro: lo riprenderà in estate a Ravenna, con la traduzione del testo in dialetto garganico.


«Mi sono rifatto al libretto russo e ho cercato di ritrovare, attraverso l'uso del dialetto, la sacralità dell'originale, l'afflato religioso che percorre il brano, esaltando la forza ritmica della parola. Lo devo a Stravinskij».
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Il Mattino