Esty ha bei capelli, lunghi e ondulati. Deve tagliarli, nessuno può vederli. Ha una bella voce ma nessuno può sentirla. Le donne della sua comunità fanno...
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Scritta da Anna Winger e Alexa Karolinski, ispirata all’autobiografia di Deborah Feldman, “Unorthodox” - tra le serie più apprezzate del momento, sia da pubblico che da critica - è il racconto di una fuga. Esty Shapiro (l’intensa Shira Haas) sembra vivere in un’altra epoca, in un mondo parallelo, tutto è superato intorno a lei dai mobili, ai vestiti goffi (le donne devono apparire umili e modeste), alle parrucche brutte, non sia mai che qualcuno pensi siano capelli veri, quelli non ci sono più. Il perimetro di questo micro-universo fuori tempo è la lingua, si parla yiddish. Si prega insieme intorno a un tavolo, quand’è Shabbat, gli uomini con in testa lo Shtreimel, il copricapo dal bordo largo, le donne con la parrucca e un fazzoletto bianco, dopo il matrimonio i capelli vengono rasati e nascosti. Esty si ribella al matrimonio combinato, al sesso che è solo dolore, all’oppressione della famiglia. Scappa a Berlino (la città simbolo della persecuzione per la sua gente diventa per lei la libertà) si toglie la parrucca e si mette i jeans. E canta in pubblico, in yiddish, davanti alla madre ritrovata, al marito che non vuole più, mostra i capelli, fa sentire la sua voce. Scopre che può diventare madre, che non c’è niente di sbagliato o di malato in lei, come le famiglie di Williamsburg volevano farle credere.
«Il mio film sulle spose in Mauritania costrette a ingrassare. Ma anche noi umiliamo i nostri corpi»
La liberazione di Esty, tra lacrime, dubbi e perdono, è raccontata (con stile asciutto ed essenziale, senza giudizi) dal suo corpo. Sono i dolori, quelli sulla pelle, a rendere insopportabile quell'infelicità. Così come è il corpo di Verida a ribellarsi nel film di Michela Occhipinti «Flesh out - Il corpo della sposa» (presentato nel 2019 al festival di Berlino) tutt’altro paese tradizioni e religione, ma identica è l’umiliazione delle donne. Verida, una giovane mauritana, è condannata come tutte le promesse spose a prendere peso prima del matrimonio. Dieci pasti al giorno, questo impone il “gavage”, una tradizione che sopravvive ancora nella capitale Nouakchott e soprattutto nei villaggi. L’agiatezza della famiglia si misura con il peso della sposa, arrivare a quel giorno magre è segno di miseria. Verida obbedisce, come hanno fatto sua madre e sua nonna, impossibile sottrarsi senza essere punite. Ma poi non ce la fa, troppo grande è il disgusto del cibo, Verida alla fine si ribella e si libera, dal velo e dall'immagine che le viene imposta.
Il Mattino