Senti che bel rumore. La «temporada» purificatrice che nel finale di «Potremmo ritornare» investe Tiziano Ferro, immobile a braccia larghe come un Cristo...
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Se la «dura pioggia» di Bob Dylan era quella del fall-out nucleare in anni teatro della contrapposizione dei blocchi e dalla crisi dei missili a Cuba, il rovescio che inzuppa l'idolo di Latina è, infatti, linfa rigeneratrice da intendersi come dono del cielo alla terra. Sostenuto da una band di sei elementi alle dipendenze del pianista Luca Scarpa, che ha nella chitarra di Davide Tagliapietra il suo riferimento imprescindibile, Ferro trova, infatti, nell'acqua che gorgoglia sugli schermi e gli precipita addosso quel muro liquido da traversare per creare un flusso tra lui e lo stadio, nei modi e nei tempi di un'autocelebrazione-monstre da due ore e venti minuti - col rammarico di non avere un paio di corde vocali di ricambio per cantare anche di più - con cui circoscrivere tutto l'universo di «Lento/Veloce», «Sere nere», «Xdono», dando vita ad un florilegio musical-letterario completamente autoriferito eccetto l'omaggio a Tenco di una «Mi sono innamorato di te» palpitante come a Sanremo. Uno spettacolo importante, Tiziano, quello di quest'estate. Accolto anche a Salerno da un clamoroso sold out da trentamila persone.
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Il Mattino