Morto Wayne Shorter, addio al leggendario jazzista che suonò con Pino Daniele

È stato un gigante del jazz, uno degli ultimi leoni della musica afroamericana

Wayne Shorter con Pino Daniele
Il suo sax soffiava note mai sentite prima né dopo, anche se figlie del prima (John Coltrane, ma anche Miles Davis, certo) e madri di tanto, ma tanto dopo. Wayne Shorter se...

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Il suo sax soffiava note mai sentite prima né dopo, anche se figlie del prima (John Coltrane, ma anche Miles Davis, certo) e madri di tanto, ma tanto dopo. Wayne Shorter se n'è andato ieri, a 89 anni, in un ospedale di Los Angeles, dove era ricoverato. Era partito da un sound nitido nell'attacco delle note, con frasi lunghe e contrastate sino al parossismo, poi aveva scelto soluzioni tronche, dolcemente liriche, arrivando a una creazione plurivocale in cui accompagnamento e assolo reclamavano autonomia. Nostalgia e modernità erano, nel suo sound, due facce della stessa medaglia. Come, a carriera inoltrata, la scrittura e l'improvvisazione.

L'uomo nato a Newark, New Jersey, il 25 agosto 1933, è stato un gigante del jazz, uno degli ultimi leoni della musica afroamericana, autore di brani diventati standard come «Footprints» e «Black Nile». Ma Shorter ha marchiato con il suo sassofono anche una bella fetta della migliore colonna sonora del Novecento tout court perché, accanto ai suoi dischi, accanto naturalmente a quelli di Miles Davis e dei Weather Report, ha lasciato il segno in storiche registrazioni di Steely Dan («Aja», 1977), Joni Mitchell («Don Juan's Reckless daughter», 1977; «Mingus» 1979; «Wild Things run fast», 1982, tra gli altri), Pino Daniele, Milton Nascimento, McCoy Tyner, Carlos Santana...

Svezzato al jazz da Horace Silver e da Nat Phipps, nell'orchestra di Maynard Ferguson incontrò Joe Zawinul, futuro complice di tante avventure. Poi entrò nei Jazz Messengers di Art Blakey, arrivando a meritare i titoli di direttore musicale, arrangiatore e compositore. Nell'estate del 1964 fu arruolato nello storico quintetto di Miles Davis con Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams e ci rimase sino al 1970, lasciando contributi indelebili anche sui primi vagiti del jazz rock di «In a silent way» e «Bitches brew». «Era il più grande compositore del gruppo, l'unico che poteva permettersi di portare musica a Miles senza che lui la cambiasse», ricordava Hancock.

Maestro ormai del soprano come del tenore, Wayne alternava registrazioni da leader a quelle di turnista, suonando con Freddie Hubbard, Lee Morgan, Grachan Moncur III, Bobby Timmons. L'antico amico Zawinul, alla fine dell'avventura con Davis, fu al suo fianco nel fondare i Weather Report con Miroslav Vitous e Airto Moreira. Sembravano uno spin-off dell'avventura del grande trombettista, diventarono la prima e più importante band fusion di tutti i tempi, intercettando la meglio gioventù sonica del periodo: Jaco Pastorius, Alphonso Johnson, Peter Erskine, Omar Hakim, Victor Baley, Mino Cinelu... sino alla scioglimento nel 1986, lasciandoci lp epocali come «I sing the body electric» (1972), «Black market» (1976) e «Heavy weather» (1977).

Conclusa anche questa seminale esperienza, si dedicò alla scoperta di nuovi talenti, lanciando le percussioniste Marilyn Mazur e Terri Lyne Carrington, le pianiste Geri Allen e Renee Rosnes, e girando il mondo in quartetto con Danilo Pérez, John Patitucci e Brian Blade, per un ritorno al suono acustico e una svolta improvvisativa.

Proprio con Pérez, Patitucci e Blade il 16 luglio del 2017 lo applaudimmo a Villa Rufolo, per il «Ravello festival», in una notte di vento e di incendi. In platea c'era anche Richard Gere. «Uno show selvaggio», commentò alla fine sorridente in camerino, ricordando l'amico Pino Daniele con cui aveva inciso un album storico come «Bella mbriana» (1982), a cui aveva contribuito anche un altro ex Weather Report, Alphonso Johnson. «Era il gitano di Napoli, un innovatore, un musicista a 360 gradi. Voleva cambiare la musica della sua città, peraltro città della musica. E l'ha fatto». Accennò al sassofono al suo storico assolo su un brano come «Toledo», raccontò la registrazione di «Io vivo come te» e «Maggio se ne va». Per lui il Lazzaro Felice «rappresentava il suono di Napoli, come Amalia Rodriguez è il suono del Portogallo, come Carlos Santana è il suono del Messico». 

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Il Mattino