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Un film americano ambientato in Francia e con un'anima italiana. E che anima: «Per The French Dispatch mi sono ispirato a L'oro di Napoli di Vittorio De Sica» dice Wes Anderson, presentando a Milano il suo ultimo, ambizioso progetto, già passato a Cannes e dall'11 novembre nelle sale distribuito da Disney. «Ho sempre amato il cinema antologico che in Italia maestri come Fellini, Visconti e Pasolini hanno portato ai massimi livelli. Volevo fare qualcosa di simile».
Al centro della storia il mondo che gira intorno a una raffinata rivista, «The French Dispatch», appunto, modellata sul leggendario «New Yorker» e ambientata nell'immaginaria cittadina di Ennui-sur-Blasé nel Ventesimo secolo. Qui, alla morte dell'amato direttore, la redazione decide di ricordarlo con quattro racconti firmati da altrettante penne eccellenti in un viaggio visionario e toccante abitato da un cast strepitoso: con Bill Murray (il defunto), ecco Benicio Del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Timothée Chalamet, Frances McDormand, Christoph Waltz, Edward Norton, Owen Wilson. Mathieu Amalric, Cécile de France e Anjelica Huston. Per Swinton, che sullo schermo è una critica che conosce intimamente ogni aspetto del mondo dell'arte moderna, il film è un omaggio «all'internazionalismo, alla cultura e alla sacrosanta arte del giornalismo indipendente». Ma il regista di «Grand Budapest Hotel», «I Tenembaum» e «Le avventure acquatiche di Steve Zissou», da ragazzo appassionato lettore dei reportage del «New Yorker», corregge leggermente il tiro: «Non avevo l'intenzione di scrivere una vera e propria lettera d'amore al giornalismo, anche se la mia ammirazione per questa forma di comunicazione è evidente e mi sento in debito verso i tanti giornalisti scrittori che ammiro.
La città fittizia di Ennui-sur-Blasé è in realtà Angoulême, la patria dell'animazione francese, che è stata letteralmente invasa dalla troupe, diventando un set a cielo aperto per la particolare struttura urbanistica e per la partecipazione dei cittadini. Spiega il regista: «Abbiamo cercato una località non troppo grande dove poter lavorare e vivere, non volevamo fare i conti con una realtà industriale, ma respirare l'atmosfera della provincia francese e fare il cinema come ai bei tempi. Angoulême era l'ideale, abbiamo utilizzato tutti gli scorci, le stradine e gli angoli caratteristici, coinvolgendo in certe scene anche mille abitanti». Altra novità nel suo stile rutilante e coloratissimo, l'uso parziale del bianco e nero: «Non è la prima volta, anche il mio primo corto, Bottle Rocked, l'ho girato in bianco e nero. Non ho pregiudizi sul colore e sul formato dello schermo, come altri colleghi, dipende dalle esigenze. Il mezzo non determina la bellezza, io amo cambiare secondo necessità e uso la luce come il pittore usa il pennello».
Giacca di velluto e camicia di seta, Wes Anderson è un texano che da anni vive a Parigi e si sente cittadino del mondo. Ha appena finito il film «Asteroid City», ambientato negli Stati Uniti ma realizzato in Spagna. Racconta di essere innamorato dell'Italia, dove ha girato, tra Roma e Napoli, il suo «Zissou». Dice: «Mi piacerebbe tornarci. Ogni volta che comincio un nuovo progetto cerco il modo per lavorare a Cinecittà. Cosa farò ora? Non lo so, ma seguo un metodo infallibile: cerco sempre sul set dell'ultimo film le idee per quello successivo».
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